Avvertenze

- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -

sabato 22 dicembre 2012

Mark Millar, Dave Johnson, Kilian Plunkett - "Superman Red Son"

Autore: Mark Millar (storia), Dave Johnson, Kilian Plunkett (disegni)
Titolo: "Superman Red Son"
Edizione: RW Lion
Anno: 2012

Mark Millar negli ultimi anni è divenuto una specie di superstar dei fumetti, come non accadeva da diversi anni, dai tempi di gente come McFarlane, Jim Lee e co. che trasformavano in oro tutto quello toccavano. Leggendo "Superman Red Son" se ne capisce facilmente il motivo. Millar, rispetto ai predecessori che ho citato, però, ha qualcosa in più, perchè le sue storie non sono solo bei disegni, colori al pc o copertine metallizzate, ma soprattutto idee.
"Superman Red Son" si trova al di fuori della normale continuity dell'Uomo d'Acciaio e questo giova moltissimo alla storia che, nelle mani di Millar, non diventa solo un classico "what if...", ma un affresco distopico che, a sua volta, si trasforma in racconto di fantascienza. Inoltre queste caratteristiche fanno sì che possa essere letto da tutti, sia dai fan dell'Uomo d'Acciaio che dal semplice appassionato di fumetti, che dal lettore occasionale che vi si accosta incuriosito (magari proprio da questa recensione).
Al di là della bellezza della storia, dei valori espressi e dell'interessante esperimento di immaginare cosa sarebbe successo se Superman fosse arrivato in Russia invece che in USA, il merito di Millar, a mio avviso, è un altro. L'autore, infatti, non tocca quasi per nulla il personaggio del protagonista, Superman è sempre quello che conosciamo, pieno di buone intenzioni e buoni sentimenti. Non è, quindi, il regime comunista a "influenzarlo" e a trasformarlo in un despota, è, invece, solo una scusa per Millar per poter avere le mani libere. In questo modo l'autore può spingere al massimo su quelle che sono le propensioni stesse del personaggio, mettendone in luce tutte le contraddizioni e i problemi. D'altronde come recita un saggio detto popolare: "la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni" e Millar ce lo dimostra con un graphic-novel di grande livello che si legge come un romanzo.
Una piccola annotazione conclusiva non può che essere d'elogio per l'edizione con copertina rigida e di pregio, capace di dare a questo volume il giusto rilievo nelle librerie di tutti gli appassionati.

lunedì 17 dicembre 2012

Valerio Evangelisti - "Cartagena, gli Ultimi della Tortuga"

Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Cartagena, gli Ultimi della Tortuga"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2012

Si conclude con "Cartagena" la trilogia di Valerio Evangelisti dedicata ai pirati. E si conclude con quello che, a caldo, è forse anche il capitolo più bello.
Mentre in "Tortuga" e in "Veracruz" la filibusta era ancora ai tempi del suo massimo fulgore (se così si può dire), in "Cartagena" la compagnia dei Fratelli della Costa è ormai allo sbando. I grandi capitani del passato non ci sono più, quelli rimasti sono solo l'ombra di coloro che li hanno preceduti. La pirateria è ormai considerata superata, sia da coloro che l'avevano fomentata e armata (le grandi potenze europee), che da coloro che la praticano.
Questo il quadro storico in cui la vicenda è ambientata. Vicenda che, come spesso accade nelle opere di Evangelisti, si presta a più livelli di lettura.
Il primo, quello più prettamente narrativo e d'intrattenimento, vede i pirati non più in grado di dare l'assalto alle città sulla costa come facevano un tempo. Per questo motivo scende a patti con la madre-patria Francia e si unisce all'esercito regolare. E' così che entra in scena il protagonista Martin D'Orlhac: inizialmente spia dei nobili, finirà per passare definitivamente tra le fila dei pirati per la loro maggiore sincerità. Tra i personaggi della trilogia dei pirati è forse il più simpatico, perchè non vile o ottuso al pari dei suoi predecessori.
Il secondo livello di lettura, invece, è quello più importante e interessante. I pirati di Evangelisti, infatti, non si prestano bene a fare la parte degli eroi o dei simboli della libertà e della ribellione. Certo, tra le loro fila vige una specie di democrazia che in Europa, al tempo, nessuno si sognava. Ciò che guida le loro azioni, però, è soprattutto la ricerca spregiudicata del profitto. Profitto a ogni costo e a danno di chiunque. I pirati divengono, quindi, precursori di quel liberismo estremo, di quel capitalismo che non guarda in faccia a nessuno, su cui Evangelisti vuole farci riflettere.
L'ultimo capitolo del libro, con il definitivo abbandono della pirateria in favore di nuovi e diversi metodi di guadagno, attraverso la creazione di un vero e proprio libero mercato in Louisiana, è solo la naturale evoluzione del discorso iniziato in "Tortuga".
Un libro da leggere e consigliare, perchè intrattiene, ma al contempo fa riflettere, molto più di tanti trattati.

mercoledì 12 dicembre 2012

LOST


Ci sono serie che passano alla storia per la loro bellezza e la loro capacità di cambiare il modo di fare tv. E ci sono serie capolavoro che rimangono appannaggio solo di pochi appassionati.
Ci sono serie pessime che chiudono, giustamente, dopo solo una stagione, a volte anche prima. E ci sono serie che ottengono un inspiegabile successo, nonostante la penuria di capacità recitative e la banalità delle sceneggiature.

Poi c'è LOST.

La creatura di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber è stato un vero e proprio fenomeno popolare, culturale e di costume per svariati anni. Ha, inoltre, avuto tali e tanti alti e bassi, che è impossibile parlarne in maniera univoca e globale. Per questo questa recensione si svilupperà in 6 mini-capitoli, ognuno dedicato a ciascuna delle stagioni che compongono la serie. Ciò per meglio metterne in luce pregi e difetti, ma anche per dare una scansione cronologica al "fenomeno" LOST e alla sua evoluzione. Per fare questo, però, è necessario fin da subito avvisare i lettori che gli SPOILER saranno numerosi e, in alcuni casi, anche molto approfonditi.

Stagione 1:
Un incidente aereo. E' così che si apre la serie. Un nutrito numero di persone che, fino a poco tempo prima non si conoscevano neanche di vista, sopravvive allo schianto del proprio volo di linea e si ritrova su un'isola deserta. Un incipit non originalissimo, ma reso interessante da alcune trovate.
Ovviamente, ben presto, i sopravvissuti scopriranno di non essere soli e si troveranno ad avere a che fare con diversi misteri apparentemente insolubili. Ad esempio cosa ci fa un orso polare su un'isola tropicale? E come funziona quella specie di sistema di sorveglianza dell'isola che si attiva solo in alcune zone, ha l'aspetto di una nuvola di fumo nero ed emette suoni di cingoli e ingranaggi? I sopravvissuti vengono tutti dall'aereo o qualcuno era già sull'isola? Cosa ci sarà sotto a un portello nel mezzo dell'isola?
Domande che servono a tenere i telespettatori attaccati allo schermo, ma che non son l'unico motivo di successo. Anzi, la vera innovazione è un'altra ed è legata ai personaggi. Attraverso un sapiente uso dei flash-back (numerosi in ogni puntata), il pubblico conosce sia la persona sull'isola che gli avvenimenti del suo passato. Così capita spesso che personaggi positivi a una prima occhiata si rivelino cattivi o viceversa. Ogni puntata, però, sembra anche fatta apposta per smantellare quanto già si sapeva di ciascuno di loro, continuando a capovolgere le idee e le certezze dello spettatore.
Attraverso l'uso di questi flash-back, inoltre, si creano legami tra i personaggi di cui neanche loro sono a conoscenza e tra loro e l'isola. Insomma i misteri si infittiscono, ma son soprattutto i rapporti di forza tra gli attori quelli che tengono il pubblico attaccato allo schermo, come in una complessa partita a scacchi in cui ogni mossa può avere effetti imprevedibili.
Si tratta del punto più alto della serie, in cui le aspettative sono altissime e la realizzazione non è da meno. Il successo di questa prima stagione, sia di pubblico che di critica, cambierà in maniera drastica il modo di fare tv e, tutt'oggi, rimane un'ottima esperienza da consigliare a chi voglia vedere una serie di alto livello.

Stagione 2:
Si riprende là dove la prima stagione si era interrotta. Come tutte le puntate, anche il finale di stagione era terminato con un climax: la botola era stata aperta e dava su un bunker sotterraneo, da cui sembra provenire una debole luce; inoltre il gruppo che aveva tentato la fortuna su una zattera viene attaccato dagli "altri" e Walt, il figlio di Michael, che sembra avere strani e potenti poteri mentali, viene rapito.
Le promesse che erano state fatte nella prima stagione sembrano mantenersi. I cambiamenti sono ovvi e radicali, gli "altri" ormai sono una certezza e, chiaramente, per ogni mistero svelato ve ne è uno nuovo. Il gioco, inoltre, riesce ancora piuttosto bene e non mostra ancora la corda. Al contrario riesce a toccare, in alcuni momenti, livelli più alti della prima. In particolare il merito è del personaggio di Benjamin Linus (interpretato da un magistrale Michael Emerson), cioè l'equivoco fatto persona, molto probabilmente uno dei "cattivi" migliori della storia della televisione. Le puntate in cui lui si trova al centro degli avvenimenti sono tutti piccoli gioiellini che riescono a regalare qualche novità, qualche sorpresa, anche dopo svariate visioni.
E' sul finale di questa seconda stagione che qualcosa comincia a scricchiolare. La sensazione è che qualcosa non stia andando secondo i piani iniziali e che si debba correre ai ripari o che, quantomeno, sia il caso di distrarre l'attenzione del pubblico perchè non si faccia certe domande. Come riuscirci? Ovviamente ponendo gli spettatori di fronte a ulteriori misteri, per esempio la scoperta del piede di una statua gigantesca, sulle dimensioni del Colosso di Rodi, con sole quattro dita. Perchè quattro dita, si domandan tutti. E dimenticano di chiedersi per quale motivo Walt, lo straordinario Walt, quello con i poteri, quello speciale, quello su cui tutti volevano mettere le mani nella prima stagione (sia sull'isola che fuori), nell'ultima puntata lasci l'isola e scompaia per sempre.

Stagione 3:
Dopo sole due stagioni, è già l'inizio della fine. Le puntate scorrono piuttosto bene e gli sceneggiatori svolgono sempre un gran bel lavoro, riuscendo a terminare ogni episodio con un climax e a tenere gli spettatori attaccati allo schermo dall'inizio alla fine. Dopo la visione, però, la curiosità di sapere cosa succederà dopo è molta meno che nelle prime due stagioni. I motivi sono molteplici e facilmente rintracciabili.
Il primo e più evidente son i misteri. Dopo due stagioni e svariati episodi il pubblico gradirebbe qualche risposta in più, ma queste non arrivano. Al contrario arrivano solo ulteriori domande. Vi è, inoltre, la sensazione che situazioni che nelle stagioni precedenti si risolvevano in un solo episodio, questa volta vengano trascinati per 2 o 3, come a voler allungare oltremodo il brodo. Infine vi sono i filler. Puntate autoconclusive, del tutto avulse dalla trama generale della serie e che non lasciano strascichi, utili solo al raggiungimento dei fatidici 24 episodi (in questo caso ridotti a 22) per fare una stagione intera.
In generale, insomma, quella che si respira è un po' un'aria di stanca. Le idee sembrano essere un po' agli sgoccioli, ma il titolo continua a tirare, soprattutto per le operazioni commerciali esterne alla serie e che coinvolgono tv, radio e web. Inoltre il network ha appena allungato la "vita" della serie dalle 3 stagioni iniziali a 7, nonostante uno dei creatori, J.J. Abrams, abbia fatto le valigie e si sia trasferito alla concorrenza dietro compenso faraonico. Quindi la serie DEVE andare avanti, in un modo o nell'altro.
Nonostante qualche episodio zoppicante e qualche ulteriore incongruenza, per fortuna piuttosto secondaria, la serie riesce a mantere ancora una sua coerenza di fondo. I colpi di scena, quando ci sono e non si basano solo su ulteriori misteri, funzionano bene. Si sottolinea, inoltre, un elemento già presente nelle prime due stagioni, ma che poteva inizialmente essere considerato solo come un semplice caso, cioè i nomi di molti personaggi. Alcuni, infatti, hanno il nome di scrittori e/o filosofi del passato, le cui idee, spesso, guarda caso ricalcano proprio le personalità dei suddetti personaggi. Con la terza stagione questo fatto sembra divenire sistematico e preludere a qualche ulteriore rivelazione. Purtroppo sono speranze che verranno vanificate.
Il classico climax di fine stagione, infine, serve da apripista per introdurre il nuovo "cattivo" della serie.

Stagione 4:
Se nelle prime 3 stagioni, infatti, il cattivo era stato un macchiavellico e manipolatore Benjamin Linus, la quarta ci spiega le sue vere motivazioni. Linus, infatti, sembrerebbe aver fatto quello che ha fatto solo per proteggere l'isola, i suoi misteri, le sue peculiarità, da chi avrebbe potuto o voluto sfruttarla. Come, per esempio, il gruppo Dharma. A seconda del punto di vista (quello di Linus o di qualcun altro), ciò che ha compiuto può essere quindi considerato giusto o sbagliato.
Uno degli "altri", scacciato tempo prima dall'isola, però, ritorna con intenzioni quanto mai vendicative. Si tratta di Charles Widmore. Nasce dunque una interessante dicotomia tra Linus e Widmore. Nessuno dei due è uno stinco di santo, entrambi hanno ingannato, ucciso e tradito per i proprio scopi. Entrambi son convinti di fare la cosa giusta: da una parte chi vuole proteggere e preservare l'isola, dall'altra chi la vuole studiare per portare nuove medicine o tecnologie a tutta l'umanità.
Entrambi sono buoni e cattivi insieme. Più che personaggi assurgono allo status di icone che rappresentano la dicotomia del mondo moderno tra fede da una parte e progresso dall'altra. Con tutte le luci e le ombre di cui entrambe son portatrici.
Se a livello concettuale le idee ci sono, a quello pratico gli episodi cominciano a incartarsi tra loro. Le incongruenze divengono numerose e i misteri, a questo punto, quasi gratuiti. Sembra ormai non passare puntata senza che si faccia uso di un nuovo mistero per tenere alta l'attenzione e terminare con un climax che faccia porre al pubblico nuove domande.
Proprio per questo le speculazioni degli appassionati sui forum e in rete, ormai, giungono a livelli altissimi per complessità (per riuscire a giustificare tutto, anche quello che gli sceneggiatori han dimenticato per strada) e genialità. Gli spettatori, invece, calano. La storia, ormai, è molto complessa e procede ininterrottamente dal primo episodio della prima stagione. Difficile, quindi, riuscire a conquistare nuovi spettatori in corsa, i quali si trovano proiettati in vicende che non riescono a capire e con troppi rimandi agli episodi precedenti. Il pubblico degli inizi, invece, tende sempre più a notare come il gioco, ormai, mostri un po' troppo la corda e finisce per lasciare.
Da sette stagioni programmate (da 24 episodi l'una), il network decide di calare un po' e di chiudere in cinque. Ma lo sciopero degli sceneggiatori si abbatte anche su LOST e la quarta stagione chiude anticipatamente con soli 13 episodi, costringendo tutti a cambiare ulteriormente i piani.
Il colpo di coda della quarta stagione è il ritorno a casa di una buona metà dei protagonisti. Mentre Linus, per salvare l'isola dagli uomini di Widmore, manovra quello che appare come un timore incastonato in una parete di pietra e "sposta" l'isola.

Stagione 5:
La chiusura anticipata della quarta stagione porta alla decisione di realizzarne altre due (invece di una sola, come programmato), ma entrambe più corte di una normale, cioè da 16 episodi l'una (in totale, quindi, 4°, 5° e 6° contano 45 episodi, meno di 2 stagioni normali).
Si inizia con Jack tormentato dall'idea di tornare sull'isola. Sembrerebbe per i rimorsi di aver lasciato indietro gli altri, in realtà è più probabile che la colpa sia del fatto che sulla terra ferma è uno come tanti, mentre sull'isola lui era un capo, una guida, qualcuno a cui tutti si affidavano per le decisioni giuste. Queste motivazioni in chiaro-scuro, questo creare delle personalità con luci e ombre, fanno ben sperare, ma son solo fuochi di paglia. Ben presto, infatti, la stagione si appiattisce in una serie di episodi piuttosto insulsi e inconcludenti in cui il brodo è allungato all'infinito. Ogni scusa è buona per creare problemi o imprevisti al piano di Jack e co. di tornare sull'isola, non ultimo un John Locke passato a miglior vita.
Sull'isola, intanto, i personaggi continuano a saltare avanti e indietro nel tempo. Questo escamotage torna molto utile agli sceneggiatori per raccontare un po' del passato del Progetto Dharma senza l'uso di altri flash-back e, ovviamente, creare ulteriori misteri.
E' a questo punto che avviene il definitivo crollo della serie.
Quella dei salti nel tempo poteva essere l'idea vincente, per quanto un po' stiracchiata, per far tornare tutte le incongruenze e tutti i misteri ammucchiati fino a questo punto (e anche quelli successivi). Purtroppo i piani di Lindelof e Cuse (da loro stessi proclamati come i responsabili della conclusione di LOST) prevedevano qualcosa di completamente diversi.
Già nella quarta stagione si era timidamente evoluta la figura di Jacob. Inizialmente solo un'entità di cui Linus afferma di eseguire gli ordini, ma che nessuno ha in realtà mai visto, diviene un personaggio stabile della serie e a cui si fa sempre più riferimento. Improvvisamente tutto e tutti passano attraverso lui, la sua guida o il suo intervento. Ben presto diviene una sorta di personificazione del bene a cui, però, occorre contrapporre una figura negativa altrettanto importante.
Ciò che rendeva così interessante LOST all'inizio, le sfaccettature dei personaggi, il loro non essere né buoni né cattivi, ma entrambi al contempo. Gli scontri di personalità e di idee, l'estremizzazione di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare per un'ideologia. Tutto questo finisce nel cesso e viene tirato lo sciacquone.
Tutto è molto più semplice: il bene contro il male.

Stagione 6:
Siamo al definitivo disfacimento della serie. Ormai praticamente nulla è rimasto di ciò che era all'inizio. Soprattutto nulla è rimasto delle buone idee della prima stagione, soppiantato da banalità, incongruenze e dal pedissequo ricorso a nuovi misteri per tentare di tenere alta l'attenzione del pubblico. Ma siamo alle battute finali e sarebbe, finalmente, ora di dare qualche risposta, magari anche sensata, visto che le puntate che mancano alla conclusione non son infinite.
Così non avviene.
Al contrario si allunga il brodo come mai prima. I flash-back, punto di forza e tratto distintivo della serie, in questa sesta stagione sono soppiantati dagli avvenimenti di quella che appare, inizialmente, come una sorta di realtà alternativa. Cosa sarebbe accaduto se l'aereo non si fosse schiantato? Si scoprirà, in realtà, essere un aldilà, una specie di "stanza di passaggio", in attesa che tutti i personaggi (ma solo gli attori che han firmato per quest'ultima rimpatriata) siano pronti al definitivo passaggio oltre.
Allora erano tutti morti come qualcuno pensava fin dall'inizio?
No, questo mondo dell'aldilà accoglie tutti i personaggi quando, prima o poi, moriranno. Alcuni pochi mesi dopo la fine della serie, altri anni e anni dopo. Naturalmente questo significa che ciò che viene mostrato di questa realtà non ha alcuna connessione con la vicenda principale ed è solo un modo per allungare il brodo, quindi vediamo cosa succede nella realtà.
Come dicevamo, una volta comparso il bene personificato, tocca al male. Ecco, quindi, che il fumo nero, il servizio di sicurezza dell'isola, che nella prima stagione era solo una macchina, diviene un'entità. Un'entità capace di assumere le sembianze di chi vuole. Questo sembrerebbe motivazione sufficiente, agli sceneggiatori, per giustificare le comparsate del padre morto di Jack nelle prime stagioni (peccato che fossero tutte apparizioni positive, non negative) e il far comportare Linus come un perfetto idiota agli ordini di un resuscitato Locke (personalmente sospetto che entrambi si siano vergognati come ladri a recitare quelle parti, ma temo dovrò tenermi il sospetto, almeno finchè non potrò chiederglielo di persona).
Altra cosa che agli sceneggiatori appare del tutto naturale, ma con cui molti fan potrebbero non trovarsi d'accordo, è il fatto che avere per le mani la personificazione del male risolva automaticamente tutto. I misteri delle stagioni precedenti, infatti, non importano più. Nulla conta più. Non contano le vicende dei personaggi né le loro caratterizzazioni, le domande lasciate in sospeso, perfino quello che è stato detto e mostrato è inutile e superato (dalle incongruenze).
Ormai tutto è solo Jacob contro l'Uomo Nero.
Quella che era una serie di fantascienza, con delle bellissime caratterizzazioni dei personaggi e un modo innovativo di raccontare la storia, diventa uno spot per la "fede". Perfino Jack, il razionale per eccellenza, alla fine viene convertito e si dona, anima e corpo, per salvare l'isola, la luce, il mondo.
Perchè?
Ecco, in realtà tutto ciò non è proprio ben spiegato. Così come molte altre cose.
Tutto merito di Damon Lindelof e Carlton Cuse, secondo cui le idee e le ipotesi che giravano sul web erano così belle, brillanti, originali e geniali... che non avrebbero mai potuto competere con loro. Meglio, allora, non spiegare nulla, finire tutto con un bello deus-ex-machina (ma non devono aver letto bene la pagina di wikipedia, perchè quello da loro architettato non può neanche essere definito così: in LOST non c'è una risoluzione e una chiusura, ma solo la chiusura) e lasciare al pubblico la libertà di darsi le risposte che meglio crede.
Con una simile uscita di scena, si potrebbe anche capire perchè hanno ricevuto molteplici lettere contenenti minacce di morte.

Tirando le somme: che si può dire di LOST?
Molto probabilmente, come altri l'hanno definita, è effettivamente "la miglior serie peggio rovinata" della storia della tv. I presupposti c'erano tutti per farne un capolavoro e, per un certo periodo di tempo, lo è anche stato. Difficile anche dire cosa non abbia funzionato se non si era all'interno del team creativo. Se ne possono solo giudicare, di volta in volta, gli esiti, ma non comprenderne le cause. Mancanza di pianificazione dall'inizio? Cambio di rotta in corsa? Pressioni dall'alto per l'introduzione della tematica religiosa (non dimentichiamoci che anche Battlestar Galactica termina nello stesso periodo e anch'essa soffra di una certa deriva mistica nell'ultima stagione)? Semplicemente pessimi sceneggiatori/produttori?
Forse un po' dell'uno e un po' dell'altro. Di certo la prima e la seconda stagione di LOST rimangono dei gioielli che bisognerebbe consigliare a tutti di vedere. L'unico problema è la dipendenza che potrebbero dare. Perchè se poi si continua la visione fino alla fine, si potrebbe perdere il saluto della persona a cui era rivolto il consiglio.

lunedì 26 novembre 2012

John Varley - "Titano"

Autore: John Varley
Titolo: "Titano"
Edizione: Mondadori - Urania n° 839
Anno: 1980

Sinceramente, tra i vari titoli degni di nota e appartenenti a quella che ormai viene considerata come un'epoca d'oro per Urania e per la fantascienza in Italia in generale (quantomeno sotto il profilo della quantità di titoli in circolazione), "Titano" di John Varley è uno di quelli che mi ha convinto di meno. 
Forse il motivo principale è che, al contrario di altri, questo titolo non è invecchiato troppo bene. Dopo un iniziale prologo fantascientifico, quasi hard-sf (un gruppo di ricerca investiga sulle lune di Saturno), l'evoluzione diviene quasi fantasy. Tra descrizioni troppo lunghe e a tratti confusionarie e noiose, il mondo all'interno di "Nemi" è estremamente vario e curioso, così come la flora e la fauna, quasi si volesse creare il più eterogeneo degli habitat e degli sfondi, così che fosse adatto alle più disparate avventure. E in effetti è su questo che ci si concentra: su incontri con angeli, centauri, scalate incredibili, fino al più classico degli incontri con la mente dietro a tutto (che sa tanto, ma proprio tanto, di Mago di Oz). 
La spiegazione finale, inoltre, spiega sì e no, nel senso che tutto viene gestito come una sorta di deus-ex-machina: le cose son così perchè son così, punto e basta. Le aggiunge, poi, servono solo ad aprire il campo per gli inevitabili seguiti. 
Un libro, quindi, interessante se preso come mero passatempo e romanzo d'avventura (per quanto, come si diceva, di stampo un po' vecchiotto), ma non all'altezza della nomea di "capolavoro della fantascienza" quale viene spesso descritto.

martedì 6 novembre 2012

Dean R. Koontz - "Phantoms!"

Autore: Dean R. Koontz
Titolo: "Phantoms!"
Edizione: Mondadori - Urania Speciale n° 1006
Anno: 1985

Come sempre Koontz si conferma scrittore dal ritmo incalzante, capace di avvincere il lettore con una tensione narrativa che ha pochi rivali. Per una volta, inoltre, il finale non risulta essere una netta caduta di stile rispetto al resto dell'intreccio. 
Dopo aver letto un libro come questo, però, sorge spontanea una punta di amarezza al constatare su cosa si sia concentrata, ormai, la narrativa di Koontz. Visti i risultati di cui si è potuto fregiare nel corso dei primi anni, romanzi come questo "Phantoms", ma anche "Mostri", "Mezzanotte" o "Lampi", non si può che rimpiangere la produzione più horror di questo autore. Non che i suoi libri successivi siano mediocri, quando uno sa scrivere come Koontz, diventa facile farsi leggere qualsiasi cosa si pubblichi, però dispiace constatare come si sia perso uno dei migliori scrittori puramente horror degli ultimi anni. Soprattutto perchè da nome di punta del genere, si è tramutato in un uno fra i tanti che scrivono thriller. Magari lui ci avrà guadagnato in numero di lettori (ma non credo di fan) e, quindi, in soldi in banca, l'horror ha perso un autore che aveva qualcosa di diverso, di originale e di qualità da dire.

mercoledì 24 ottobre 2012

Preston & Child - "La Danza della Morte"

Autore: Douglas Preston, Lincoln Child
Titolo: "La Danza della Morte"
Edizione: Rizzoli - BUR
Anno: 2008

Preston e Child si riconfermano, per l'ennesima volta, ottimo scrittori d'intrattenimento. Questo "La Danza della Morte" (secondo capitolo di una sottotrama conosciuta dai fan come trilogia di Diogenes) dimostra una volta in più, se mai ce ne fosse bisogno, che i due romanzieri americani volano una spanna sopra a tanti autori di best-seller più o meno noti. 
La trama, come sempre, è intricata e piena di svolte e colpi di scena. I personaggi, soprattutto quelli che i lettori hanno già imparato a conoscere ed apprezzare nei precedenti romanzi scritti dalla coppia, sono come sempre vividi e tridimensionali. Seppur, in alcuni casi, magari un po' stereotipati, risultano immediatamente simpatici e ci si trova, volenti o nolenti, a parteggiare per loro. 
In questo nuovo capitolo delle avventure dell'agente speciale Pendergast, inoltre, facciamo finalmente la conoscenza, faccia a faccia, di suo Diogenes. Figura ammantata di mistero, sorta di entità malefica che aleggiava di sottofondo già da un paio di volumi, il fratello di Aloysius fa qui la sua entrata in scena. E si tratta di un'apparizione trionfale. 
Buona parte del libro è basato su una sorta di scontro di menti, il bene contro il male, in un elaborato intreccio di mosse e contromosse tra due cervelli geniali. 
Naturalmente la prima regola è accordare una buona dose di sospensione dell'incredulità, dopo di ché, però, ci si può buttare a capofitto nella lettura. Preston e Child non vinceranno mai il Nobel per la letteratura, né passeranno alla storia come gli scrittori più venduti o più letti della storia. I loro libri non hanno velleità d'artista, ma solo quello di esser l'opera di onesti mestieranti. Ciononostante, i libri dell'agente speciale Pendergast (e questo in particolare), sono in grado di riservare qualche ora di una più che piacevole compagnia, unita a dell'intrattenimento di qualità. E scusate se è poco.

mercoledì 17 ottobre 2012

Valerio Evangelisti - "Rex Tremendae Maiestatis"

Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Rex Tremendae Maiestatis"
Edizione: Mondadori - Strade Blu Dark
Anno: 2010

Decimo capitolo del ciclo di Nicolas Eymerich, ma anche ultimo capitolo della saga dell'inquisitore. 
Ammetto di essere molto legato a questi libri e a questi personaggi, per cui è difficile riuscire a rimanere del tutto oggettivi scrivendo queste parole. D'altra parte è altrettanto difficile rimanere indifferenti di fronte a questa lettura e non pensare a questo ultimo romanzo come al capolavoro dello scrittore bolognese, capace di essere degna conclusione e, al contempo, nuovo inizio del ciclo. 
Ma andiamo con ordine. 
Inutile sforzarsi di dare una infarinatura della trama, chi ha mai preso in mano uno dei romanzi del ciclo di Eymerich, sa che le vicende non sono quasi mai lineari, ma il frutto di avvenimenti che accadono in tempi e luoghi diversi, distanti migliaia di chilometri o centinaia (se non migliaia) di anni. Eppure questi fatti hanno una eco capace di influenzare, istantaneamente, gli altri, spesso con un ordine che potrebbe apparire a-cronologico. Cercare, quindi, di esplicare in poche parole la storia alla base del romanzo rischierebbe di risultare come una sequenza di spoiler del tutto inutili. 
Meglio, piuttosto, concentrarsi sugli argomenti su cui si basa il libro e parlare di quelli. Già, perchè "Rex Tremendae Maiestatis" non è solo una delle indagini più interessanti e complicate dell'inquisitore, ma anche una sorta di libretto delle istruzioni per meglio comprendere tutti gli altri volumi della saga. Proprio in questo sta la grandezza di questo romanzo, nel fornire una sorta di nuova chiave di lettura per tutti i precedenti capitoli del ciclo. Una conclusione, quindi, ma anche un nuovo inizio, una nuova luce attraverso la quale leggere e rileggere tutti i libri (magari nel corretto ordine cronologico degli avvenimenti e non quello in cui son stati scritti), in un vero e proprio serpente che si morde la coda: l'ouroboros (non a caso più volte citato nel romanzo), simbolo di ciclico ed eterno alternarsi di inizio e fine, alfa e omega. 
Le qualità, naturalmente, non si esauriscono qui, ma meglio lasciare al lettore il piacere e l'emozione di scoprirle da solo. 
Al termine della lettura, però, rimane pur sempre un piccolo rimpianto, quello di aver detto addio a un personaggio unico che, nel bene e nel male, avevamo imparato ad apprezzare e, perchè no, ad amare. Inutile cercare di nascondere il magone, come quando si saluta un vecchio amico, sapendo che non tornerà. Si può solo cercare di mitigarlo riprendendo in mano "Nicolas Eymerich, Inquisitore".

venerdì 5 ottobre 2012

George R. R. Martin - "Tempesta di Spade" Parte Prima

Autore: George R. R. Martin
Titolo: "Tempesta di Spade" Parte Prima
Edizione: Mondadori - Urania Grandi Saghe
Anno: 2009

Come sempre Martin non si smentisce e confeziona un libro (o, almeno, la prima metà) pieno di avvenimenti, capace di avvincere il lettore con il carisma dei suoi personaggi e la drammaticità degli eventi. 
I nuovi POV (abbreviazione di Point Of View, cioè "punti di vista"), inoltre, ci aprono nuove porte e nuove percezioni. Ed è qui che sta, anche, la bravura di Martin, perchè quando guardiamo il mondo con gli occhi di un personaggio, diventa difficile continuare a considerarlo uno stronzo, come magari facevamo prima. Questo stratagemma, inoltre, ci conferma una volta di più come la storia dei Sette Regni non sia una e una sola. Al contrario la storia cambia e differisce a seconda di chi è il narratore. 
Diventa, così, fin troppo evidente che vi è ancora molta carne che deve essere messa al fuoco prima che la saga possa vedere la sua conclusione. Cosa di cui i fan son sicuramente felici, purchè il Buon Vecchio Zio Martin dia una mossa alla sua penna e la porti a conclusione con un po' di celerità in più rispetto a quella mostrata per terminare il quinto libro (ben 6 anni!).

mercoledì 26 settembre 2012

Battlestar Galactica


Quando una serie diviene, o può essere considerata, un capolavoro?

Soprattutto… è sempre possibile riconoscere immediatamente una serie capolavoro, già mentre viene messa in onda? O non bisogna, piuttosto, aspettare qualche anno, per vedere come risponderà alla prova del tempo? Se ha lasciato il segno e continua ad avere qualcosa da dire, nonostante il passare degli anni?

Facile affermare che serie come Star Trek TOS o la prima stagione di Spazio 1999 son capolavori, più difficile è dirlo se le serie son molto più vicine a noi.

Un problema, però, che non sembra porsi con Battlestar Galactica.

Tutto nasce con una serie TV dalle alterne fortune, creata inizialmente nel 1978 (per quanto fondata, pare, su una idea degli anni ’60) dalla ABC. Questa prima serie non ebbe successo e, anche a causa degli altissimi costi di produzione, venne presto interrotta. Alla prima serie fece seguito, a breve distanza, un rilancio con nuova trama e nuovi personaggi che naufragò in brevissimo tempo. Benché la prima serie fosse stata chiusa a causa dei bassi ascolti, infatti, sia il pubblico mainstream che i fan della prima ora presero malissimo il tentativo di reboot e boicottarono (probabilmente anche a causa del pessimo livello del prodotto, frutto di un budget bassissimo che costrinse a realizzare alcuni episodi riciclando spezzoni di altri film e telefilm) in massa la seconda serie.

Battlestar Galactica appariva, quindi, un titolo destinato a finire nel dimenticatoio. Invece, vuoi per gli effetti speciali della prima serie (assolutamente all’avanguardia per l’epoca), vuoi per il carisma di alcuni personaggi, vuoi perché il nome si è instillato nelle menti degli appassionati di fantascienza come qualcosa di mitico e mitologico, nel corso degli anni diversi son stati i tentativi di riportare sugli schermi la serie.

I nomi che si agitavano dietro le quinte son stati molti, da Glen A. Larson, creatore iniziale della serie, a veri e propri big come Brian Synger (regista de I Soliti Sospetti e X-Men 1 e 2, ma anche produttore di Doctor House). Nessuno di essi, però, ha avuto fortuna con le rispettive case di produzione.

Tocca, quindi, a Ronald D. Moore (già noto agli appassionati per svariati episodi di Star Trek TNG e Star Trek DS9), nel 2003, riuscire là dove in tanti avevano fallito. E si re-inizia proprio come era iniziata la prima, storica, serie, cioè con un telefilm con grandi effetti speciali.

La storia, inoltre, non è una riscrittura della serie originale, bensì una sorta di sua evoluzione. 50 anni dopo la fine della guerra tra umani e Cyloni (robot che si eran ribellati agli uomini loro creatori) narrata nella prima serie, la miccia si riaccende. Una nuova generazione di Cyloni lancia un attacco nucleare globale e simultaneo contro tutte le colonie di esseri umani. Il risultato è agghiacciante: oltre il 90% della razza umana viene cancellato in poche ore, si salvano solo poche migliaia di persone che fuggono a bordo di alcune astronavi spaziali.

In meno di 3 ore, la durata complessiva della miniserie che anticipa la nuova serie, Ronald D. Moore ci presenta una situazione assolutamente critica e drammatica come se ne son viste solo in pochissime altre occasioni e pone il primo mattone di una serie spettacolare destinata a divenire un capolavoro.

Già, perché ciò che avviene in questo inizio letteralmente “col botto” è, appunto, solo l’inizio. Non staremo a enumerare tutti gli avvenimenti e gli sconvolgimenti a cui andrà incontro la serie, anche per non togliere il piacere agli spettatori di scoprire da soli cosa gli riserva ogni nuovo episodio. Diremo solo che non si tratta di uno di quei titoli a cui piace sedersi sugli allori e porre in essere una certa situazione nelle prime puntate, per poi finire a riciclare all’infinito determinati schemi narrativi. Al contrario tutta la vicenda è in continuo divenire e, soprattutto, ogni svolta serve a presentare nuovi, interessanti, dilemmi, spesso etici e morali, come nella tradizione della migliore fantascienza letteraria.

Se è vero, come è vero, che una branca della science-fiction è definita “umanistica” per il suo essere allegoria di questioni socio-politiche attuali poste in ambientazioni futuristiche, come, ad esempio, quella di Philip K. Dick, Theodore Sturgeon, Clifford Simak, Robert Heinlein, in parte anche Isaac Asimov e molti altri, allora Battlestar Galactica può essere inserita nello stesso genere.

Ciò che colpisce, però, sopra a tutto, è il coraggio di alcune scelte di sceneggiatura, anche alla luce del momento storico in cui vengono fatte. Non molti avrebbero il fegato, perfino oggi, di scrivere singoli episodi dal punto di vista di terroristi kamikaze, disposti a tutto pur di porre fine al regime degli invasori. Ronald D. Moore dedica all’argomento quasi metà di una stagione e lo fa in tempi ben più vicini all’11 Settembre. Ma molti altri son gli esempi eclatanti di una profondità con pochi epigoni, ad esempio i dilemmi morali se sia lecito vietare gli aborti (quindi limitare la libertà di alcuni individui) quando la razza umana è così vicina all’estinzione o, ancora, se è giusto impedire gli scioperi e ridurre, in pratica, in schiavitù centinaia di persone, perché son le uniche capaci di produrre alcune materie prime che servono a tutta la comunità.

Temi forti, profondi, che in Battlestar Galactica non sono trattati con sufficienza, al contrario con sceneggiature interessanti e mai banali, capaci di regalare più di un brivido agli spettatori.

Tutto è oro quel che luccica, quindi?

In realtà no. Rimane, infatti, in sospeso la questione del finale che ha fatto storcere il naso a molti fan.

Anche in questo caso, però, è giusto e doveroso fare dei distinguo. Stabilire, cioè, una differenza tra quella che è la fine della vicenda narrata fin dal primo episodio, una fine che non avrebbe potuto essere differente (cosa che si intuisce fin da metà della terza stagione), e alcuni punti lasciati “in sospeso”.

Come molte serie ad essa contemporanee (come, ad esempio, LOST), anche Battlestar Galactica risente di alcune influenze e derive che potremmo definire “mistiche”. Non ci è dato sapere i motivi per cui una serie puramente fantascientifica ed estremamente razionale abbia ceduto alla tentazione di inserire degli angeli nella trama. Così come non ci è dato sapere come mai Ronald D. Moore, che fino all’ultimo è sempre riuscito a incastrare i tasselli del puzzle in maniera quasi maniacale, abbia improvvisamente mandato a monte una parte dell’affresco della serie per introdurvi delle variabili che non si prende neanche la briga di spiegare. Possiamo solo sospettare che ci siano state delle influenze da parte della produzione per l’aggiunta di questi elementi chiaramente poco coerenti. Fatto sta che molti dei fan hanno, giustamente, storto il naso.

Tuttavia, per quanto questi fattori abbiano ridotto in maniera inequivocabile il valore del finale, di certo non intaccano, invece, i meriti della serie nel suo complesso. Battlestar Galactica rimane (e sicuramente rimarrà a lungo) una pietra miliare della fantascienza televisiva, capace di imporre nuovi standard sia a livello di produzione (effetti speciali, regia, recitazione, costumi, scenografie) che, soprattutto, a livello di sceneggiature.

Una serie come questa non esce tutti i giorni: correte a recuperarla!

domenica 26 agosto 2012

Haruki Murakami - "La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie"

Autore: Haruki Murakami
Titolo: "La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie"
Edizione: Einaudi - Tascabili
Anno: 2008

Mah. Forse mi aspettavo di più. O forse, semplicemente, mi aspettavo qualcosa di diverso. 
Fatto sta che questo mio primo incontro con Haruki Murakami non è stato del tutto soddisfacente, almeno per il sottoscritto. 
Ma quali sono i problemi del libro? Certamente non il fatto di esser scritto male, infatti lo stile è sempre molto elegante e scorrevole. Anche nei punti in cui la cultura orientale (fatta di usi e costumi, modi di dire, etc.) diventa fonte di piccole possibili incomprensioni per il lettore occidentale, la lettura prosegue senza intoppi. 
La storia, inoltre, è interessante e la dicotomia tra "interno" ed "esterno" del protagonista (nessuno spoiler, fa di peggio la quarta di copertina, da questo punto di vista), per quanto intuibile già dai primi capitoli, lascia presagire sviluppi imprevisti. 
Il problema, però, salta fuori proprio a questo punto. 
Non mi riferisco tanto ad alcune digressioni filosofico-esistenzialiste che ad alcuni potranno piacere moltissimo, mentre ad altri potrebbero risultare piuttosto ripetitive e noiose (appartengo a questo secondo gruppo). Il fatto è che la trama, la svolta definitiva, la rivelazione, tutto quanto si esaurisce già nella prima metà del romanzo. Come si diceva, poi, il colpo di scena è anche ampiamente previsto, ma il lettore prosegue perchè convinto che lo aspetti ben altro, che si arrivi a un nuovo livello. 
Invece tutto questo non accade. Una volta sganciata la bomba, la parte rimanente del libro è un lento trascinarsi verso l'inesorabile fine. Perfino l'ultimo, definitivo, colpo di scena che pone fine a tutto, più che una sorpresa appare quasi come un dovere. L'unico sistema per chiudere il libro, terminarlo lì su due piedi, perchè succedesse qualcosa d'altro non saprebbe come cavarsela. 
Per certi versi è un libro molto "straniero", perchè la cultura che anima e che fa muovere i personaggi è ben diversa dalla nostra. Ma questo giustifica solo fino a un certo punto certe scelte di trama e di svolgimento della storia. 
Forse un giapponese potrebbe trovare più significati simbolici e metafisici di un occidentale in quel finale, ma il sospetto è che lo troverebbe ugualmente insoddisfacente.

mercoledì 1 agosto 2012

Life On Mars UK vs. Life On Mars USA


Gli americani, lo sappiamo, nutrono una certa idiosincrasia nei confronti di tutti quei prodotti, per il grande e il piccolo schermo, realizzati al di fuori dei loro patrii confini. L’abbiamo visto con l’ondata degli horror nipponici, uno dopo l’altro ri-fatti dagli americani, anche se spesso con l’aiuto dei registi originali (The Ring, Ju-On – The Grudge, Dark Water, etc.), l’abbiamo visto anche con gli horror spagnoli (Rec divenuto Quarantine) e in molte altre occasioni. Ovviamente, alla lista non potevano mancare i telefilm.
Il fatto è che non si può neanche dire che gli americani abbiano pessimo gusto. I titoli selezionati, infatti, sono spesso delle vere e proprie chicche, dei gioiellini per l’idea di partenza, le trame degli episodi, la recitazione e/o la realizzazione complessiva.

Gli USA non hanno una cultura del doppiaggio come ce l’abbiamo noi in Italia. Da loro i film non vengono tradotti e ridoppiati ma, generalmente, sottotitolati. Possibile, però, che costi meno rifare un film da zero, con attori americani, che sforzarsi di provare, per una volta, a doppiarne uno? Ad ogni modo neanche la scusa del doppiaggio funziona e sta in piedi, quando a venir rifatte negli States sono serie anglosassoni e quindi già “parlate” in inglese (e, diciamocelo, un inglese spesso migliore di quello che si sente nelle serie americane).

Quello che lascia davvero perplessi, in realtà, è perché prendere un prodotto con delle sue caratteristiche e qualità implicite; qualità che devono essere state riconosciute e apprezzate, se hanno condotto a quella scelta; per poi stravolgerlo completamente.

Questo, in sintesi è quanto capitato a Life On Mars.
Sì, perché, chiariamolo subito: tutte le scuse sul finale della serie americana, sull’ultimo episodio abborracciato, non in linea con quello inglese, tirato via, incoerente, etc. sono, per l’appunto, scuse. Che oltretutto non stanno neanche in piedi.

Ma andiamo a vedere, in dettaglio, cosa rende splendida la versione UK e pessima quella USA.

Cominciamo con ciò che salta immediatamente agli occhi: gli attori.
La versione UK può contare su un Sam Tyler interpretato da John Simm. Per gli sfortunati che non hanno mai sentito il nome di questo autore, dico solo che si tratta di uno splendido attore di teatro. Se, poi, volete vederlo recitare, dare una occhiata all’ottimo Exile, alle puntate del Doctor Who in cui compare nei panni del Master, a Mad Dogs e a praticamente tutto ciò che ha fatto. Un attore di spessore, quindi, perfettamente in grado di lasciar trasparire tutti i dubbi, i tormenti, le indecisioni di una persona che è convinta di venire da un altro tempo.
Il Sam Tyler USA, invece, è impersonato da Jason O’Mara. Diciamo che costui ha certamente il giusto phisique du role per la nuova versione di Life On Mars. Laddove Tyler inglese era un detective mingherlino, quello americano è un marcantonio grande come un armadio, quasi si volesse rimarcare l’idea che gli yankee son più grandi e forti. Il problema di O’Mara, però, non son tanto le dimensioni, quanto le capacità recitative. Vedendolo in questo telefilm (e in quelli successivi) ci si domanda come sia possibile che si sia formato a Dublino e Londra e sia addirittura stato candidato a miglior attore non protagonista all’Irish Theatre Award nel 2002. Cosa ha dunque portato quest’uomo a una tale involuzione recitativa tale da fargli contendere a Nicholas Cage il titolo di “faccia da comodino” ? In totale, in Life On Mars, O’Mara sfoggia 2 espressioni: quella imbronciata da pesce lesso e quella con gli occhi sgranati da pesce lesso. Qualsiasi cosa succeda, chiunque incontri, qualsiasi cosa gli dicano, queste sono le uniche 2 espressioni a sua disposizione… insomma, un bel salto di qualità.
Oltre a Sam Tyler un altro personaggio importantissimo di Life On Mars è Gene Hunt, interpretato nella versione inglese da Philip Glenister che ricrea un perfetto poliziotto spaccone, amante della bottiglia, borioso, disilluso, con più ombre del lecito, ma sostanzialmente buono e giusto. Il mix con Simm è perfetto, così perfetto che, guarda caso, i due torneranno a recitare insieme in seguito.
Il Gene Hunt americano, invece, è interpretato da Harvey Keitel, un attore che, normalmente, sarebbe al di sopra di ogni sospetto, ma che, questa volta, sforna una interpretazione davvero molto al di sotto delle sue potenzialità e delle aspettative, facendoci rimpiangere il suo Cattivo Tenente.
Gli altri personaggi sono sullo stesso piano: resi più sciatti, banali, stupidi, piatti. Annie diventa una biondona degna di Baywatch e con la profondità di una polaroid. Ray non è più il mastino originale, tuttalpiù un chiwawa. Infine Chris è a dir poco irritante.

Capitolo colonna sonora: inutile dilungarsi. UK batte USA 10 a 1.

Bocciato il cast, vediamo che ne è stato delle trame (attenzione, qui cominciano gli spoiler).
Il primo episodio americano è pressoché identico a quello inglese. Il detective Sam Tyler sta dando la caccia a un assassino, viene investito da un’auto e si risveglia nel 1974. Come è possibile? È morto? È in coma? Ha forse viaggiato nel tempo? O, più semplicemente, sta diventando pazzo?
Tutti i suoi dubbi sono incrementati dal fatto che in quella nuova realtà la gente sembra attendere il suo arrivo, come se fosse stato trasferito da un altro quartiere.
A questo punto, però, le due versioni divergono sempre più.
La prima differenza è nell’ambientazione. D’accordo: la versione americana è ambientata a New York, mentre quella inglese a Manchester, ma non è a questo che mi riferivo, quanto all’atmosfera anni ’70. La versione inglese ci presenta degli anni ’70 sporchi, con corruzione dilagante, violenti e razzisti. Le persone di colore, i gay, perfino le donne, son discriminati e oggetto di battute pesanti. I sospetti vengono spesso picchiati per indurli a parlare, etc. Per Sam Tyler, abituato ad avvocati iper-garantisti, uffici immacolati, sospensioni per una virgola fuori posto e a colleghi di qualsiasi colore, sesso, nazionalità e gusti sessuali, è uno shock. Si trova lì come un pesce fuor d’acqua, continuando a protestare per diritti di cui sembra non fregare nulla a nessuno. Poco a poco, però, riuscirà a convincere tutti che i suoi metodi così sbagliati e strampalati non sono.
La versione americana, invece, sembra uno spin-off del musical hair. La gente va in giro vestita in maniera improponibile, ma, soprattutto, gli anni ’70 sembrano la fiera del multiculturalismo, del rispetto per le minoranze e dell’integrazione. Mai una parola fuori posto, mai una battuta. Perfino quella bambolona siliconata che è diventata Annie non riceve neanche un commento sulle sue ghiandole mammarie ipertrofiche, tra l’altro sempre ben in mostra. In questa fiera del politically correct, è il Sam Tyler americano, addirittura, a fare quasi la parte del cattivo, risultando spesso più violento e brutale dei suoi colleghi. Una contraddizione non da poco.

Il peggio, però, è stato fatto nella storia.
La versione inglese è coerente, quella americana no. In quella inglese Sam Tyler finisce negli anni ’70 e ci son molte cose che gli fanno sorgere dubbi su quale sia la realtà. Se sia in coma o se abbia viaggiato nel tempo. Per esempio nel primo episodio si trova a indagare sullo stesso assassino su cui indagava nel presente e lo arresta. Gli omicidi son identici, per forza di cose sembra la stessa persona, ma come mai è rimasto silente per quasi vent’anni? Semplice: proprio perché era stato arrestato (da lui stesso? non si sa). Una volta uscito dall’ospedale psichiatrico riprende a uccidere. Ma i modi spicci di Hunt fanno sì che l’assassino non finisca in ospedale, ma in carcere a vita. Risultato: il presente cambia. Dunque Tyler ha davvero viaggiato nel tempo?
Forse sì, forse no. Perché in realtà il protagonista, ogni tanto, ha dei contatti con il presente. Un presente in cui lui si trova in coma, circondato dai parenti che pregano per lui e sperano che ne esca. Ma forse è questa realtà quella che non esiste, quella solo frutto della sua mente… se non fosse che Tyler sa in anticipo molti eventi che negli anni ’70 non si sono ancora svolti.
Insomma, il plot è complesso e strutturato in maniera tale da non dare certezze al pubblico e gli attori fanno il resto nel tenere lo spettatore avvinto. Il meglio arriva con il finale. Un finale dolce-amaro, per certi versi nichilista e al contempo pieno di speranza. Tyler, infatti, si risveglia dal coma, lasciando dietro di sé gli amici in difficoltà. È tornato a casa, al suo tempo, è questo che conta, il resto cerca di convincersi che fossero solo fantasie. Ma le cose non funzionano più. Non sente quello come il suo tempo, le persone che ha accanto gli appaiono quasi come dei perfetti sconosciuti. Non perché non le conosca, ma perché i tempi stessi spingono le persone a rimanere distanti. È l’alienazione degli anni 2000 quella che Tyler percepisce in tutta la sua forza, dopo l’esperienza negli anni ’70: più sporchi, sbagliati, razzisti, imperfetti… come tanto più veri e umani.
Per questo fa l’unica scelta possibile. Salito in cima a un palazzo si getta di sotto e torna negli anni ’70 per aiutare i suoi amici.
Un finale coraggioso, impeccabile nello sviluppo e da brividi per i messaggi di cui si fa portatore. Più di tutto il resto: degli attori, dei costumi, delle ricostruzioni, delle trame dei singoli episodi, è il finale che rende splendido Life On Mars. È il finale che fa spiccare questo telefilm dalla media e, a rigor di logica, avrebbe dovuto attirare l’interesse, compreso quello degli americani.

E in effetti gli americani arrivano, comprano i diritti (e addirittura propongono a Simm e Glenister di rifare gli stessi personaggi nella serie americana, purché recitino con accento americano… offerta prontamente rifiutata da entrambi) e si mettono a fare la propria versione. Forse sarà scontato, ma dobbiamo dirlo e, per parafrasare un famoso critico cinematografico, il ragionier Ugo Fantozzi: “la versione USA di Life On Mars è una cagata pazzesca!!!”.
Ma cos’è che, oltre a tutto il resto, rende così pessima la versione yankee? Ovviamente il finale, del tutto stravolto nel senso e nello spirito. Un finale che la produzione si è affrettata a cercare di giustificare parlando di esser stata costretta a inventarsi qualcosa per colpa della chiusura anticipata della serie. Scuse che, vedremo, son chiaramente false.
Nel finale americano, infatti, vediamo Sam Tyler “risvegliarsi” in una astronave. Lui, e tutto il resto del cast, fanno parte dell’equipaggio della prima nave spaziale spedita verso Marte. Sono stati tutti messi in animazione sospesa e il computer di bordo, per ingannare l’attesa, ha proiettato nelle loro menti una finta realtà, seguendo i gusti di ciascuno. Una sorta di Matrix al contrario, insomma. Solo che quella di Tyler ha un certo punto ha avuto un cortocircuito e così, invece di un tranquillo tran-tran da detective del ventesimo secolo (come lui stesso aveva scelto prima di imbarcarsi), il corto si è tramutato nell’incidente d’auto che l’ha spedito negli anni ’70. Tra l’altro con un rimescolamento impressionante a livello di ruoli tra personaggi reali dell’equipaggio e personaggi “fittizi” (uno fra tutti: Tyler finisce a letto con la figlia di Hunt, ma scoprirà che nella realtà Hunt è suo padre…).
Chiunque abbia pensato a un simile sistema, capace di creare giganteschi problemi di identità a chiunque vi si sottoponesse, andrebbe licenziato in tronco. Il riferimento alla splendida canzone di David Bowie, quindi, si perde del tutto. Il titolo della serie americana non sarebbe dovuto all’anno in cui uscì la canzone (il 1974), bensì a un vero e reale viaggio verso Marte. Da brillante a banale. Il peggio, però, è stato l’aver cercato di far credere agli spettatori che il finale dovesse essere un altro e che quello era solo un ripiego. Guardando il telefilm, infatti, non si direbbe proprio.
I rimandi al presente della versione inglese: i cambiamenti al corso della storia, i tentativi di risvegliarlo dal coma, etc. nella versione americana sono pressoché mancanti. Al contrario, invece, non mancano interferenze destabilizzanti che sembrano, piuttosto, aver a che fare proprio con il finale che abbiamo visto. Frequenti sono i primi piani di robottini, astronavi, altri giocattoli futuristici e fantascientifici, presenti quasi ovunque nei luoghi in cui si trova anche Tyler. Così come i sogni e le allucinazioni di Tyler di nuovo hanno spesso a che fare proprio con questi robottini. Infine, senza alcuna motivazione plausibile, tutti finiscono subito per soprannominare il protagonista “space-man”.
Un indizio non fa una prova, ma tanti, tantissimi, piccoli indizi sparpagliati lungo tutto l’arco della serie, danno una ben chiara idea di quale fosse l’intento della produzione. D’altra parte è difficile pensare che la Fox avesse il coraggio di proporre un finale come quello inglese, troppo forte, troppo complesso emotivamente e intellettualmente per il pubblico di massa americano (che guarda caso ha mostrato di non gradire neanche una serie intelligente e brillante come Fringe), ma di certo non ci si sarebbe mai potuti aspettare una banalizzazione simile.

In conclusione, dunque, una preghiera:
“Cari americani, ci son tante storie brutte, inutili, scadenti, che son già mediocri di loro, senza andare a dover rovinare anche le belle idee altrui. Per favore, se volete fare una cagata, fatevela in casa vostra. Risparmierete anche, perché così non dovrete stare a pagare i diritti all’estero. A voi rimarranno un po’ di dollari in più in tasca e noi non correremo il rischio di imbatterci in qualche altro obbrobrio come il vostro Life On Mars. Mi sembra uno scambio equo, no?”.

lunedì 23 luglio 2012

Robert Heinlein - "Straniero in Terra Straniera"

Autore: Robert Heinlein
Titolo: "Straniero in Terra Straniera"
Edizione: Club degli Editori
Anno: 1987

A volte è difficile trovare le parole per commentare quello che, pressochè unanimemente, è considerato un capolavoro della fantascienza mondiale. Inutile anche spendere ulteriori parole su come questo "Straniero in Terra Straniera" sia praticamente antitetico per argomenti, messaggio e visione del mondo rispetto a un altro grande libro di Heinlein: "Fanteria dello Spazio". 
L'unica cosa che rimane da fare, terminata la lettura, è solo quella di accodarsi allo stuolo di estimatori, lodando (come un mantra) il libro e l'autore. 
Perchè, allora, solo 4 stellette e non 5? Perchè non dare il massimo se si concorda sul valore di questo volume come masterpiece della SF? 
Semplicemente perchè, probabilmente, Heinlein avrebbe anche potuto fare di più e, lungo le pagine del tomo, lo si avverte chiaramente. I vari passaggi o capitoli in cui si snoda e articola la vicenda, hanno spesso toni e forza differenti, a volte addirittura fin troppo altalenanti tra loro. Se, infatti, l'inizio funziona molto bene, così come il periodo che il "marziano" passa a casa Jubal, subito dopo si avverte qualche scricchiolio. Stilisticamente a questo punto si perde di vista chi sia, in realtà, il narratore della vicenda. Per quanto tutto sia narrato in terza persona, spesso le cose ci vengono mostrate attraverso le percezioni che ne hanno alcuni personaggi, in particolare Jill o lo stesso Valentine Michael Smith. Quando torna utile allo scrittore per velocizzare, o saltare, dei passaggi, però, il narratore diventa Jubal o qualcun altro. 
Inoltre, soprattutto, ad un certo punto comincia a inserire alcuni intermezzi "angelici" che sembrano aver ben poco a che fare con il resto del libro. Perchè raccontare una vicenda in cui si ripete a ogni piè sospinto come le religioni siano, in realtà, create dall'uomo per tenere altri uomini legati. Perchè raccontare di come un uomo, che non ha avuto una educazione umana, riesca a capire tutto ciò proprio grazie al suo punto di vista "alieno" e decida quindi di creare a tavolino una sua propria religione nuova allo scopo di "liberare" gli uomini. Perchè scrivere il libro, con tutti i suoi messaggi, se poi mi si viene a dire che un Dio e degli Angeli esistono e che tutto, comunque, è un piano deciso dalle alte sfere con gli esseri umani come semplici pedine? Vanifica un po' tutto il senso del resto del volume. 
Per questo motivo è un capolavoro, soprattutto per il periodo in cui è stato scritto, ma non posso dargli il massimo dei voti a causa di alcuni difetti piuttosto macroscopici.

Terra Nova


Misteri della tv.
Potrebbe essere questo uno dei modi migliori per definire “Terra Nova”, neo-nato (e subito morto) telefilm prodotto da Steven Spielberg. Un titolo su cui si è molto investito sia dal punto di vista realizzativo (in particolare per la CG) che per quanto riguarda la pubblicità, tanto da essere presentato quasi in contemporanea in Italia e USA. Sotto il profilo della promozione, in particolare, nulla da dire: probabilmente son molti quelli a cui han cominciato a brillare gli occhi vedendo i primi trailer. Notando, poi, l’accoppiata Spielberg-Dinosauri, l’attesa non poteva che andare direttamente alle stelle ripensando a un film come “Jurassic Park” (ma solo il primo).
Saranno stati questi 2 fattori, sarà stata la pubblicità martellante, sarà quel che sarà… ma “Terra Nova” ha subito tagliato un più che ragguardevole traguardo. Negli Stati Uniti, infatti, il primo episodio è risultato l’esordio di un nuovo telefilm con il maggior numero di spettatori di sempre.

E allora come è possibile che la Fox avesse già deciso per la sua cancellazione prima ancora della messa in onda dell’ultimo episodio?

In realtà, forse, i segnali c’erano già tutti, bastava andare a spulciare un po’ i nomi coinvolti.
Sul gradino più basso del podio troviamo lui, il nome più altisonante: Steven Spielberg. Un tempo novello Re Mida di Hollywood e, ultimamente, divenuto capace di rovinare praticamente qualsiasi cosa tocchi. Ogni tanto qualcosa gli riesce ancora, soprattutto se si mette lui dietro alla macchina da presa (e qui niente da dire, la classe c’è sempre, peccato semmai per qualche contenuto), ma quando produce i risultati son più bassi che alti (a tal riguardo ricordiamo “The Pacific”, noioso tanto quanto era bello “Band of Brothers”; “Falling Skies”, ne parleremo/lo stroncheremo in un altro articolo; “Super 8″, inutile e sopravvalutato; “The River”, parleremo anche di questo; etc.).
Al secondo posto impossibile non metterci Jason “faccia da comodino” O’Mara. Già era sconvolgente e incomprensibile come avessero potuto sceglierlo per dargli la parte che era stata di John Simm nella versione americana di “Life On Mars”. Quello che risulta, però, fuori da ogni logica è che dopo aver dimostrato tutte le sue inesistenti doti attoriali in quella serie (che, ricordiamolo, aveva anche molti altri difetti… recuperate, invece, quel piccolo capolavoro della versione UK), gli abbiano affidato nuovamente il ruolo del protagonista in un nuovo telefilm, invece di rispedirlo a zappare la terra. Inutile dire che anche in questo caso non ha perso occasione per dimostrarsi non all’altezza.
Il gradino più alto del podio, però, se lo becca uno sconosciuto ai più: Brannon Braga. Ecco, negli ultimi 10 anni vedere il suo nome legato a una qualsiasi serie tv dovrebbe essere il giusto campanello d’allarme per qualsiasi fan. Dopo una fortunata parentesi iniziata e terminata con alcune serie recenti di Star Trek come “Next Generation”, “Voyager” ed “Enterprise”, Braga ha inanellato una sfilza di chiusure: “Threshold”, l’ottava e ultima stagione di “24″, “Flash Forward” e, per finire, “Terra Nova”. Il fatto è che non si può neanche dire che lui produca solo brutte cose, anzi! Al di là di qualche cosa da sistemare, infatti, sia “Threshold” che “Flash Forward” erano serie potenzialmente interessanti che, forse, avrebbero meritato di potersi esprimere meglio con una seconda stagione. “24″, poi, non si discute, essendo probabilmente il telefilm più adrenalinico e crea dipendenza della storia della tv. Fatto sta che, per un motivo o per l’altro, se arriva Braga a produrre, la serie chiude (per il prossimo anno, forse, possiamo tirare un sospiro di sollievo e arrischiarci ad appassionarci a qualche nuovo telefilm perché al momento sembra non sia impegnato a produrne nessuno).

Al di là dei nomi coinvolti o delle capacità recitative dei singoli attori, però, ci son svariate ragioni per non rimpiangere “Terra Nova”.
Intanto c’è subito da dire che la computer grafica sfoggiata nel primo episodio per stupire gli spettatori con panorami futuristici e dinosauri realistici, già dalla seconda puntata risulta enormemente ridimensionata. Il futuro diviene un lontano ricordo non più mostrato; mentre gli animali vengono fatti vedere pochissimo e quando avviene appaiono decisamente appiccicaticci e finti. Una CG leggermente più credibile tornerà a farsi viva solo nel finale di stagione, ma ormai il danno sarà fatto.
Un altro elemento a sfavore di “Terra Nova”, poi, son gli stereotipi. Gli stereotipi possono essere utilissimi per caratterizzare velocemente qualche personaggio di contorno, così che gli spettatori capiscano subito con chi hanno a che fare senza doverne raccontare tutta la vita. Purtroppo la stessa cosa non funziona se i protagonisti stessi sono degli stereotipi, perché, se no, il telefilm stesso diventa una noia mortale. Oltretutto, nel bene e nel male, “Terra Nova” arriva dopo uno spartiacque epocale come “Lost” che ha del tutto cambiato le carte in tavola nel modo di fare serie tv. Se c’era una cosa che rendeva splendida la prima stagione di “Lost”, infatti, era il non sapere mai cosa aspettarsi da ogni personaggio, questo perché a ogni puntata chi era buono diventava cattivo e chi era cattivo diventava buono: si continuavano a scoprire particolari del passato di ognuno di loro che li faceva vedere con occhi diversi. In “Terra Nova” non avviene nulla di simile, al contrario, nel momento in cui qualcuno tenta quasi di mettere in dubbio uno dei personaggi o di dargli qualche ombra, si è ben lesti nel chiarire (più allo spettatore che per dovere di trama) che il soggetto è senza dubbio buono (o cattivo). Questo fa sì che tutto risulti estremamente appiattito e che quelle che nascevano come motivazioni per i comportamenti di alcuni personaggi (ad esempio la ricerca della vendetta per il figlio del comandante Taylor), in definitiva appaiano solo come pretesti per far andare avanti la storia o l’episodio, ma senza sostanza. Insomma per i buoni ci son sempre mille e una scusa per giustificarne il comportamento, anche quando fanno qualcosa che appare sbagliato, mentre i motivi dei cattivi non sono neanche tali: fanno i cattivi perché son cattivi, nient’altro… c’era più approfondimento psicologico in Biancaneve e i Sette Nani.
Se si pensasse che i personaggi stereotipati siano l’unico difetto della serie, però, si sbaglierebbe di grosso, ce ne son altri anche strutturali. Ad esempio è incredibile notare il numero di filler presenti in una prima stagione composta da soli 13 episodi. Ci si aspetterebbe, infatti, che gli autori abbiano molte cose da dire in uno show appena nato e che tengano da parte gli episodi fini a se stessi per la terza o la quarta stagione, quando ci sarà da allungare il brodo… qui, invece, si potrebbe vedere il primo episodio, poi saltare direttamente agli ultimi 2 e non ci si perderebbe nulla in comprensione degli avvenimenti. Riallacciandoci al discorso su “Lost”, inoltre, come abbiamo potuto notare anche con “Alcatraz”, è ormai difficile fare una serie tv che continua a porre domande, ma non dà mai risposte. Il pubblico vuole, almeno ogni tanto, qualche contentino che tenga alta l’attenzione e desta la curiosità. Soprattutto vuole ancora stupirsi e se le risposte non sono all’altezza delle aspettative, allora son guai. In questa ottica, quindi, per fare un esempio tra i tanti, mal gliene incoglie agli sceneggiatori di “Terra Nova” avendo prima speculato sul fatto che, forse, quel periodo storico non è il nostro passato e non è neanche la stessa terra (una sonda, portata indietro nel tempo, non è mai stata ritrovata nel futuro), salvo poi perdere completamente per strada queste riflessioni e giustificare quegli strani geroglifici antichi di migliaia di anni, quei disegni bizzarri, quelle scritte in una lingua sconosciuta che nessuno comprende… come scritti dal figlio di Taylor per farli scoprire dal padre. Inutile e pretestuoso, di conseguenza, il tentativo in extremis di riattizzare la curiosità degli spettatori con la trovata della nave pirata (che sa davvero tanto di “Lost”, tanto valeva chiamare l’imbarcazione Black Rock).

Tutto così brutto, quindi? In realtà non proprio, se paragonata a un’altra serie tv prodotta da Spielberg e trasmessa quasi in contemporanea come “Falling Skies”, “Terra Nova” sembra perfino avere qualche freccia al proprio arco. Per quanto spesso piuttosto banalotte nel plot e scarse nella recitazione, almeno le puntate di “Terra Nova” avevano un po’ di ritmo (forse merito anche di un veterano come Jon Cassar, non a caso dietro alla macchina da presa dalla prima all’ultima stagione di “24″). Purtroppo, come abbiamo visto, questo non è stato un elemento sufficiente per decretarne la sopravvivenza e, forse, è stato anche meglio così.

mercoledì 4 luglio 2012

Alcatraz


J.J. Abrams è un nome che, ormai, tutti conoscono.
Dopo LOST, una serie tv dal successo e dal seguito eccezionale in tutto il mondo (la cui eco non si è ancora spenta, non fosse altro che per le polemiche riguardo al finale), è sembrato assurgere allo stadio di vero e proprio Re Mida. Questo, almeno, per le case di produzione di Hollywood, che hanno fatto a gara per contenderselo e per mettergli in mano i brand e i progetti più disparati (da Mission Impossible a Star Trek, passando per un buon numero di serie tv nuove di zecca).
In realtà il tempo ci ha mostrato come non tutto ciò che è stato toccato dal novello Re Mida si è davvero trasformato in oro. In alcuni casi è difficile capirne il motivo (ad esempio vedasi come una serie di qualità come Fringe stenti già da un paio di stagioni e quest’anno sia arrivata vicinissima a una prematura chiusura), in altri, invece, è sotto gli occhi di tutti. Non indugiamo oltre, quindi, e togliamo subito ogni dubbio sul fatto che Alcatraz appartiene a questa seconda categoria.

Non si tratta, semplicemente, del fatto che la serie sia stata messa in naftalina dopo la prima stagione. Un fatto simile è capitato a diversi serial, molti dei quali belli, interessanti, ben realizzati e con ottime prospettive di crescita. Purtroppo non sempre il fatto di essere un prodotto di qualità va di pari passo con gli ascolti e sappiamo che per le case produttrici contano solo quelli (senza considerare come spesso vi siano divergenze di gusti tra americani ed europei: una serie andata male oltre oceano può avere un buon seguito qui e viceversa). Alcatraz, però, non appartiene certamente a questo gruppo.

Eppure, fin dal primo episodio, sembravano esserci tutti gli ingredienti che avevano fatto la fortuna di altre serie di J.J. Abrams come Alias e, soprattutto, LOST.
Tutto si apre con un gran bel mistero: la notte del 21 Marzo 1963 gli occupanti dell’isola carceraria di Alcatraz, detenuti, secondini, direzione, etc. scompaiono nel nulla senza lasciare traccia. Il governo si affretta a nascondere le prove: chiude Alcatraz con delle scuse e inventa finti documenti di trasferimento dei detenuti in altre carceri in tutto il paese, detenuti che, ovviamente, in breve tempo risulteranno passati a miglior vita per malattia, incidenti e via dicendo.
In realtà già a questo punto sorgono dei dubbi e si evidenziano le prime incongruenze (e i parenti dei detenuti? nessuno che abbia provato ad andarli a trovare nei nuovi penitenziari? per non parlare dei parenti dei secondini, tutti spariscono e nessuno dice niente?), ma la sospensione dell’incredulità è già stata ampiamente allenata in 6 stagioni di LOST e lo spettatore tenta di accantonare momentaneamente le domande sperando che prima o poi arrivi qualche risposta.

Questo l’incipit.
La serie vera e propria inizia oggi, quando uno di quei detenuti scomparsi 50 anni prima, ricompare, non invecchiato di un solo giorno e con, apparentemente, una missione da compiere. Come spesso accade nelle serie tv: personaggi diversi tra loro e che non sembrano aver nulla a che fare gli uni con gli altri, finiscono (più o meno) casualmente a indagare tutti insieme per risolvere gli enigmi (da questo punto di vista si segnalano, quantomeno, Jorge Garcia, l’Hugo di LOST sempre simpaticissimo, e il veterano Sam Neill; gli altri, compresa Parminder Nagra, la dottoressa Nela Rasgotra di ER, invece, risultano piuttosto anonimi e sottotono per essere tra i protagonisti, tanto da ispirare ben poca simpatia o empatia per le loro sorti, molto meglio i personaggi di corollario come il dottore e il direttore del carcere).
Il fatto è che le puntate si susseguono e, più che le domande e i misteri, è la noia a cominciare a regnare sovrana. Il format scelto, infatti, è quello di dedicare ogni nuovo episodio a un nuovo diverso detenuto che ricompare. Questo fa sì che ogni puntata sia molto a sé stante, quasi visionabile indipendentemente dal resto della serie, ma già dopo le prime tre o quattro il plot diviene ripetitivo e stucchevole.
Il fil rouge della continuità, che aveva decretato parte del successo di LOST, in questo caso è assente, così come sono assenti quei finali sul climax che ti facevano andare in crisi d’astinenza appena terminava la puntata. Non viene, quindi, voglia di andare avanti, anzi, è forse con un po’ di timore di annoiarsi che si passa al successivo episodio.
Una cosa che, invece, Alcatraz riprende da LOST è il meccanismo dei flashback, in questo caso ambientati nel 1963, prima della scomparsa di tutti i residenti sull’isola-prigione. Dovrebbe essere un modo per inserire qualche ulteriore mistero e creare curiosità, ma spesso si rivela un meccanismo controproducente perché, a volte, si svelano fin troppi particolari. In questo modo quando poi i detective dei giorni nostri scoprono qualcosa di nuovo (soprattutto nel finale di stagione), non si tratta più di una rivelazione, almeno per lo spettatore, e tutto risulta piuttosto deludente.

A tutti questi difetti va chiaramente aggiunto il fatto di arrivare dopo LOST. Se quella serie aveva rappresentato una novità, in Alcatraz molte cose sanno di già visto. Il protrarre e il continuare ad aggiungere misteri su misteri, poi, in alcuni potrebbe ingenerare il timore che tutto vada a finire in niente, come già successo. Lecito, quindi, che molti di coloro che sin son scottati con LOST abbiano deciso di abbandonare la serie, temendo di farsi male di nuovo.
Timore, tra l’altro, molto ben riposto. Al di là della chiusura anticipata della serie che ci lascia con alcune domande inevase (molte meno di quelle che si potrebbe pensare, in verità), il finale di stagione è davvero deludente. Non staremo qui a raccontare gli avvenimenti o a fare spoiler, per chi dovesse decidere di sacrificare qualche ora della propria vita (come ahimè abbiamo fatto noi) per guardarla, basta dire che le scottanti rivelazioni sono tutte ampiamente prevedibili (quando non esplicitamente mostrate, se si segue con attenzione) e quelle che non lo sono, risultano essere piuttosto banali e scontate. In definitiva è proprio qui che, per usare una espressione colloquiale, “casca l’asino”. Proprio come con LOST, dopo tante elucubrazioni, tante congetture, tante teorie, una più fantasiosa, grandiosa, arzigogolata, dell’altra, quello che ci si trova tra le mani come spiegazione è qualcosa di tanto semplice e basilare da non essere quasi neanche una risposta, e che lascia delusi.

Nonostante, quindi, l’ultima puntata termini con uno di quei climax che, sulla carta, dovrebbero essere belli grossi, tanto da spingere lo spettatore a correre subito a consultare la guida tv per sapere quando sarà il prossimo episodio… si spegne il televisore quasi con una sensazione di liberazione al sapere che, finalmente, è terminata.

venerdì 1 giugno 2012

Terry Pratchett - "Streghe all'Estero"

Autore: Terry Pratchett
Titolo: "Streghe all'Estero"
Edizione: TEA
Anno: 2011

Pratchett, anche in questo "Streghe all'Estero", è come sempre ad alti livelli. 
In questo caso, poi, si mette a giocare con le storie, le favole e le fiabe. Lungo il viaggio che porta le 3 streghe protagoniste fino all'altro capo di Mondo Disco, incontreranno, e si infileranno, nelle versioni rivedute e corrette di racconti come Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata, Cenerentola, etc. Tutti classici che qui vengono riproposti in una nuova veste e sotto un punto di vista decisamente alternativo e spassoso. Come sempre, però, non mancano le occasioni anche per far leggermente riflettere il lettore, tra una risata e l'altra, così che il libro non sia solo uno sterile elenco di battute ad effetto. 
Forse non una delle vette di originalità della produzione letteraria di Pratchett, dati i tanti riferimenti esterni, ma probabilmente uno dei libri più ironici e divertenti che abbia sfornato.

sabato 19 maggio 2012

Richard Matheson - "Altri Regni"

Autore: Richard Matheson
Titolo: "Altri Regni"
Edizione: Fanucci - Vintage
Anno: 2011

Matheson è, giustamente, considerato come uno degli scrittori viventi più importanti in ambito fantastico (anche se, probabilmente, non famoso quanto meriterebbe). 
Questo libro, presentato dalla casa editrice come l'ennesimo capolavoro, sinceramente non è all'altezza dell'autore di "Io Sono Leggenda", "3 Millimetri al Giorno" o "Io Sono Helen Driscoll". Sicuramente risulta efficace nel suo voler imitare il diario, piuttosto confusionario, di un ottantenne che ricorda alcuni fatti straordinari del suo passato. Lo stile, però, risulta eccessivamente confusionario, la lettura ne esce spezzettata, frammentata da continue pause e digressioni che non aiutano a calarsi nell'atmosfera del racconto. 
Inoltre la storia, per quanto romantica, non è nulla di originale, di dirompente. Non è capace di riscrivere gli stilemi di un genere, di crearne uno nuovo o di dire, finalmente, qualcosa di nuovo là dove tanti hanno, semplicemente, riproposto ciò che altri avevano già fatto. Insomma, non è il Matheson che ci si aspetterebbe e un po' di delusione rimane nell'aria fino alla fine della lettura e anche dopo. 
Non che ci si annoi, la lettura scorre tranquilla senza grandi scossoni, ma da uno scrittore di tale caratura ci si aspetterebbe decisamente ben altro. Il consiglio è di rivolgere la propria attenzione a qualcuno dei suoi classici o alle sue raccolte di racconti (dove ha dato buona parte del suo meglio) e di lasciar da parte questo romanzo, su cui dovrebbero buttarsi solo gli appassionati in crisi d'astinenza che han già letto tutto il resto ;-)

giovedì 10 maggio 2012

Vittorio Curtoni - "Dove Stiamo Volando"

Autore: Vittorio Curtoni
Titolo: "Dove Stiamo Volando"
Edizione: Mondadori - Urania
Anno: 2012

"Dove Stiamo Volando" è il giusto tributo di Urania a un grande della fantascienza italiana. 
Ma è un tributo che non è per tutti. 
Il volume, infatti, contiene sia il romanzo omonimo "Dove Stiamo Volando" che una selezione di racconti che l'autobiografia romanzata dell'autore e del suo rapporto con la SF. In particolare quest'ultimo contenuto è chiaramente rivolto principalmente a chi conosceva già Curtoni come autore e agli appassionati di SF, mentre dirà ben poco al lettore occasionale. Eppure molti lettori farebbero bene a cominciare proprio da qui la lettura di questo volume per capire meglio la persona dietro ai testi. 
Inoltre bisogna ammettere che lo stile di "Dove Stiamo Volando" è spesso estremamente lirico, sognante, pieno di virtuosismi; capace, insomma, di far storcere il naso al lettore meno allenato e abituato a una prosa più semplice, basilare (in una parola: mediocre). 
Un lirismo che si ritrova non solo nello stile di scrittura, ma anche nei contenuti, con riflessioni profonde, spesso amare, cariche di un grande senso di anticipazione, ma anche di una certa dose di pessimismo (frutto dell'osservazione del mondo di oggi). 
Non sono da meno i racconti, nella maggior parte dei quali sembra spiccare, in particolar modo, il tema della percezione. La mancanza di correlazione tra ciò che le persone vedono, sentono, ricordano e ciò che è la realtà è un concetto che ritorna spesso in questa antologia, presentato in modi sempre nuovi e originali. 
Per coloro che conoscono l'autore, ma anche per chi non aveva mai avuto l'occasione di leggere qualcosa di suo, questo è un libro che non si può mancare e bisognerebbe fare proprio.