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martedì 18 febbraio 2014

Art Spiegelman - "MAUS"

Autore: Art Spiegelman
Titolo: “MAUS”
Edizione: Einaudi – Stile Libero
Anno: 2010

“MAUS” di Art Spiegelman è un’opera che ingenera sentimenti contrapposti nel lettore. Mentre lo si ha tra le mani, infatti, non si riesce a trattenersi dal chiedersi: “perché non l’ho letto prima?”, ma al contempo ci si sente fortunati per le emozioni che suscita poterlo leggere per la prima volta. Questo succede perché “MAUS” è un’opera potente, che scava nel cuore delle persone suscitando sensazioni e sentimenti forti con cui, in certi momenti, è difficile scendere a patti.
L’opera sembra partire in sordina, con l’escamotage meta-letterario di farci vedere l’autore stesso mentre comincia a pensare di scrivere e disegnare questo libro. Ci mostra la semplicità dei rapporti umani, in particolare quelli tra Art Spiegelman e suo padre Vladek, e il tema centrale dell’olocausto appare secondario, quasi solo un argomento di conversazione tra i due. Poi, poco a poco, però, i racconti di Vladek assumono maggiore spazio ed è proprio su questo equilibrio tra presente e passato che si regge tutto il libro. Sarebbe, forse, stato semplice per l’autore creare una contrapposizione, una dicotomia, tra questi due periodi storici, contraddistinguendoli anche per il tono della narrazione, l’uno più serio e drammatico, l’altro più leggero e brioso. Una scelta che avrebbe potuto dare una sorta di tregua al lettore che, altrimenti, avrebbe rischiato di rimanere schiacciato dalle emozioni. Invece ciò che troviamo è un ritmo narrativo più complesso, con difficoltà sia nel presente che nel passato, ma, allo stesso modo, momenti più rilassati, quasi divertenti, sia in un periodo che nell’altro.
Ciò che colpisce, soprattutto, è la spietatezza dell’autore. Spiegelman non fa sconti a nessuno. “MAUS” non è un’opera buonista, non è neanche un’opera di parte. Non soffre del complesso per cui, se si parla dell’olocausto, allora tutti gli ebrei debbono essere automaticamente buoni, generosi, vittime innocenti di un orrore più grande di loro. “MAUS” non scade mai nell’apologia di un popolo o nel tentativo di addolcire la pillola, ma si limita ad essere cronaca fedele, fredda e brutale, di una serie di fatti. Così sono frequenti i casi di violenza, di soprusi, compiuti da ebrei verso altri ebrei, semplicemente perché si tratta di una vera e propria guerra per la sopravvivenza, in cui spesso vince solo il più spietato. Leggendo viene normale provare sentimenti di odio verso coloro che compiono truffe ai danni di loro pari o coloro che, nei campi di concentramento, sono perfino più cattivi degli stessi soldati tedeschi. Sono disperati tentativi di sopravvivere, il disgraziato che se la prende e si approfitta di chi è più disgraziato di lui. Lo stesso protagonista di tutto il racconto, Vladek, in più occasioni si ritrova a venir preso per la gola in alcuni scambi per poi, altre volte, comportarsi lui stesso come uno strozzino. Nel finale, addirittura, dimostra di essere razzista nei confronti delle persone di colore, come se tutto ciò che ha passato non gli abbia insegnato nulla, visto che considera i “neri” dei diversi, non degli esseri umani uguali a lui.
Spiegelman, in tutto questo, non dà un giudizio morale. Non punta il dito verso coloro che, invece di dividere il poco che avevano con tutti, per cercare di tirare avanti tutti insieme, se lo sono tenuto per sé, nel tentativo di garantire la salvezza almeno personale e dei propri cari. Si limita a raccontare come uno dei più grandi orrori che la storia umana ricordi sia in grado di cambiare le persone. Di primo acchito viene normale considerare dei mostri coloro che vediamo comportarsi male (secondo un sistema di valori che non ha dovuto fare i conti con la situazione in cui si sono trovate a vivere quelle persone), ma, riflettendoci attentamente, la nostra condanna dovrebbe andare verso coloro che hanno fatto sì che quelle persone fossero costrette ad agire in quel modo.
Quando si gira l’ultima pagina di questo libro si sente che ha lasciato un segno dentro di noi. Si rimane un po’ smarriti, come se non si riconoscesse più il mondo che ci circonda. Quasi si vorrebbe continuare la lettura, per quanto dolorosa fosse, per quanto lasciasse nel nostro cuore un segno come un marchio a fuoco. Un segno che fa male, profondo e che brucia, ma un segno che sentiamo può aiutarci a crescere, a migliorare, a diventare persone migliori.

venerdì 7 febbraio 2014

Andre Agassi - "Open"

Autore: Andre Agassi
Titolo: "Open"
Edizione: Einaudi Stile Libero
Anno: 2011

Devo ammettere di non essere un grande fan delle biografie e delle autobiografie. Soprattutto non sono un grande fan di quelle dedicate agli sportivi, nonostante nell’ultimo periodo sembrino spopolare.
È, dunque, con più di qualche dubbio e pregiudizio che ho preso in mano “Open” di Andre Agassi, nonostante i tanti bei commenti che ho letto in giro (anche da parte di amici) e nonostante sapessi che il ghost-writer dietro a questo libro fosse tutt’altro che uno sprovveduto, avendo vinto il premio Pulitzer.
Ma cosa era a preoccuparmi?
Principalmente di trovarmi di fronte a una noiosa e sterile cronistoria delle fasi salienti della vita e della carriera dell’ennesimo uomo di sport.
Non potevo sbagliarmi di più.
Il merito, probabilmente, non è solo di J. R. Moehringer ma anche, e soprattutto, del protagonista del libro: Agassi, infatti, non è un uomo di sport come tanti altri.
Dopo averlo terminato non mi son dunque sorpreso che avesse avuto il successo che ha avuto, che sia diventato un piccolo fenomeno editoriale, sia in Italia che all’estero. Gli elementi che fanno funzionare un libro ci sono tutti e sono gli stessi dei grandi best-sellers di narrativa, solo che questa volta sono veri.
Il protagonista, fin da piccolo, è un prescelto. Un prescelto dal padre, che ha deciso dovrà diventare, che lo voglia o no, il tennista numero uno al mondo. Dunque via con gli allenamenti fin dalla più tenera età. Ore e ore a palleggiare contro un mostro meccanico spara-palle soprannominato “il drago”. Niente scuola, è solo tempo perso e rubato agli allenamenti. E poi partite, partite e partite. Contro ragazzini della stessa età, più grandi e perfino adulti, contro avversari sempre più bravi, per poter migliorare.
Un prescelto, dunque, come nella migliore tradizione della narrativa fantasy, ma un prescelto ancora acerbo, che, in realtà, ancora non sa neanche chi è. Con tanti dubbi, domande e paure. Una sola certezza: l’odio per il tennis.
“Open”, dunque, diviene non solo la narrazione degli eventi e dei match della vita di Agassi, diviene un romanzo di formazione, di crescita. La crescita del protagonista, certamente, con la sua ricerca di sé stesso attraverso mille e più tentativi (di pettinatura, estetici, ma anche matrimoniali), il più delle volte andati a vuoto. Ma è leggendo quelle pagine, imparando ad apprezzare la persona dietro lo sportivo, con le sue fragilità, le sue incongruenze (può, colui che aveva le convulsioni all’idea di andare a scuola, diventare il filantropo che sogna di inondare di scuole tutta l’america?), che anche il lettore cresce e, forse, impara anche qualcosa su di sé.
Pur apparendo il classico “libro del momento” (quindi destinato a sparire appena cambia la moda), pur sembrando l’ennesima biografia di uno sportivo con il solo scopo di rubare spazio sulla mensola della libreria, “Open” è tutt’altro. È un libro che merita certamente una lettura: primo perché è scritto veramente bene (a questo riguardo non fidatevi di me, fidatevi del curriculum vitae del signor Moehringer che l’ha scritto), secondo perché riesce a lasciare qualcosa.
Oggigiorno sembra diventato raro trovare romanzi o volumi in grado di farlo. Anche tra i cosiddetti mattoni, quei libri pesantissimi che promettono di avere le risposte alle domande dell’esistenza, alla vita, l’universo e tutto quanto, è raro riuscire a trovarne uno che sia in grado di lasciare davvero il segno. Perfino tra quelle storie tragicissime che dovrebbero insegnare qualcosa al lettore. Il più delle volte il segno finiscono per lasciarlo solo nel portafogli e sul calendario, per il tanto tempo speso (o sprecato) per riuscire ad arrivarci faticosamente in fondo.
“Open”, invece, lascia il segno, e potreste anche trovare molto divertente il modo in cui lo fa.