Avvertenze

- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -

giovedì 3 dicembre 2015

Douglas Preston & Lincoln Child - "La Ruota del Buio"

Autore: Douglas Preston & Lincoln Child
Titolo: "La Ruota del Buio"
Edizione: Rizzoli
Anno: 2008

Come sempre, Preston & Child non deludono (almeno quando sono in coppia) e, soprattutto, non delude l'ennesima avventura di Pendergast.
In realtà, in questa occasione, l'agente speciale, dopo una prima parte del libro da assoluto protagonista, si eclissa un po', lasciando ai personaggi di contorno il compito di portare avanti la storia e la narrazione. Sono, infatti, solo questi ultimi gli unici testimoni di molti degli accadimenti della seconda parte del romanzo, mentre Aloysius è in altre faccende affaccendato. Questo non inficia in alcun modo la fruibilità del libro, che anzi rimane avvincente (come sempre, del resto) dall'inizio alla fine. Solo rimane forse un pizzico di delusione nei fan di Pendergast per non averlo visto in azione un po' di più, soprattutto nei dialoghi e in tutte quelle situazioni in cui appare sempre brillante.
Il libro si segnala anche per la presenza dell'elemento fantastico, qui presente in maniera ben più spiccata rispetto al solito. Nei precedenti volumi una qual fantasiosa giustificazione scientifica veniva sempre trovata per tutto quello che succedeva, senza lasciare mai spazio all'esoterismo o alla magia vera e propria. Con "La Ruota del Buio", invece, sembra che questo tabù venga infranto, lasciando oltretutto al soprannaturale un ruolo decisamente attivo e protagonista (soprattutto nella seconda parte del libro). Nel finale si cerca di riallacciare tutto quando detto e mostrato a teorie scientifiche di ultimissima generazione, ma in realtà il libro avrebbe (e in effetti lo fa) funzionato benissimo anche senza.
Per concludere, dopo la trilogia di Diogenes, una vicenda leggermente più classica, ma non per questo meno divertente ed avvincente, per l'agente speciale. Ovviamente i fan non potranno lasciarsela scappare, anche perché, a discapito di tutto, forse lo scontro tra Pendergast e suo fratello è destinato ad avere più strascichi di quanto ci si sarebbe potuti aspettare e, ovviamente, saranno di portata epocale.

venerdì 20 novembre 2015

John Wyndham - "I Figli dell'Invasione"

Autore: John Wyndham
Titolo: "I Figli dell'Invasione"
Edizione: Mondadori - Urania Collezione
Anno: 2012

Ci sono libri che invecchiano bene ed altri che invecchiano male. "I Figli dell'Invasione" appartiene indiscutibilmente alla prima categoria.
I motivi sono principalmente due: come è scritto e i temi che va a toccare.
Wyndham riesce a tenere alta l'attenzione dall'inizio alla fine. Il crescendo del finale, verso un epilogo che è ampiamente annunciato, ma che appare ineluttabile, è assolutamente grandioso e ha i toni della tragedia. Si capisce ben presto cosa accadrà, quale sarà l'unica soluzione possibile, eppure si continua a leggere, avvinti alle pagine, quasi speranzosi che le cose possano andare diversamente. Sono pochi gli autori capaci di lasciar presagire il finale con tanto anticipo, ma al contempo in grado di portare mano nella mano il lettore fino alla parola fine senza lasciargli in bocca il sapore di qualcosa di "scontato".
L'altro grande pregio di questo libro, come si diceva, sono i temi che va a toccare. Temi così ancestrali, così connaturati all'essere umano, da non essere toccati dal passare del tempo.
"I Figli dell'Invasione" va a toccare uno degli imperativi biologici di qualsiasi essere vivente: riprodursi e far proseguire la propria specie. Wyndham fa un bellissimo esempio paragonando la situazione del libro a quella del Cuculo, che depone il proprio uovo nel nido di un altro uccello, così che sia quell'altro a crescere la sua prole, la quale si dimostrerà estremamente aggressiva liberandosi ben presto degli altri pulcini, più deboli di lui. Su questa paura, sul timore che i nostri figli possano essere sostituiti da qualcosa di diverso, di alieno, giunto qui solo per porre fine alla nostra esistenza, l'autore britannico basa tutto il libro. E fa bene, perché è una paura terrificante e al contempo in grado di far presa su chiunque, più che sufficiente per poter reggere tutto l'impianto del romanzo.
Al contempo Wyndham non ci mostra solo le paure per il diverso, ma anche le normalissime reazioni di negazione e, addirittura, di incondizionato amore dei genitori, in particolare delle madri, che non possono fare altro che continuare ad amare il proprio figlio, nonostante tutte le prove contrarie.
L'unica pecca, se proprio se ne vuole trovare una a questo libro, è dovuta al modo di pensare di alcuni personaggi (neanche tutti, a dire il vero), molto british e legata al periodo storico in cui il romanzo è stato scritto. Oggi, infatti, di fronte a un fatto similare, con un numero eccezionale di gravidanze inspiegabili, in molti casi indesiderate e, per finire, con caratteristiche assolutamente strane e peculiari, molte delle donne coinvolte non avrebbero indugiato un solo minuto prima di ricorrere all'aborto. Nella vicenda di Wyndham, invece, questa ipotesi non è contemplata in alcun modo, neanche di sfuggita. Ma non dubitiamo che, anche oggi, vi siano persone che potrebbero seguire questa linea di pensiero. Probabilmente è questo il solo segno del passare del tempo di cui risente quest'opera, ma è un segno che passa decisamente in secondo piano rispetto a tutti gli altri pregi.
Per concludere Wyndham ci consegna un libro che risulta attualissimo ancora oggi, ancora capacissimo di fare presa sulle paure dell'essere umano. A parte qualche ovvia discrepanza tra i modi di fare e pensare attuali e quelli dei personaggi del romanzo, sembrerebbe quasi non fosse passato neanche un solo giorno da quando è stato scritto.
Indubbiamente un capolavoro, non c'è nient'altro da dire.

martedì 17 novembre 2015

Arthur C. Clarke e Frederik Pohl - "L'Ultimo Teorema"

Autore: Arthur C. Clarke
Titolo: "L'Ultimo Teorema"
Edizione: Mondadori - Urania
Anno: 2012

2+2=4.

Lo sappiamo tutti.
Quando agli addendi, però, si sostituiscono i nomi di autori, scrittori, creativi, soprattutto se di grande ingegno, spesso il risultato è superiore alla somma delle parti. A maggior ragione ci si aspetterebbe un grandioso risultato, se a essere coinvolti sono due mostri sacri della fantascienza come Arthur Clarke e Frederik Pohl. Entrambi non hanno certo bisogno di presentazioni e possono a più che buon diritto essere annoverati tra quegli scrittori che hanno fatto la storia (e la fortuna) di questo genere letterario.
Eppure, il risultato della loro somma è stato 3.
"L'Ultimo Teorema" era giustamente atteso dagli appassionati come un appuntamento da non mancare, da non lasciarsi sfuggire. Innanzitutto perché si trattava della prima collaborazione tra questi due grandissimi autori, secondariamente a causa della scomparsa di Clarke e del fatto che questo è stato l'ultimo libro a cui aveva lavorato.
Purtroppo le speranze sono andate ampiamente deluse.
Il romanzo è sicuramente scritto bene e riesce anche a incuriosire e a coinvolgere per lunghi tratti, ma non succede sostanzialmente nulla. Il fatto che la vicenda non presenti un vero e proprio sviluppo inizio-svolgimento-fine, ma sia solo uno spaccato della vita dei protagonisti, non è di per sé un male, sono vari gli esempi (in letteratura, fumetti, cinema) di opere meritevoli che ruotano attorno allo slice-of-life. Il vero problema è che il libro è infarcito di situazioni e idee che sarebbero potenzialmente interessanti, ma rimangono tutte appena fuori dal punto di vista della narrazione, come se fossero colte solo con la coda dell'occhio e siano destinate a rimanere per sempre fuori fuoco.
Tutte le vicende ci vengono raccontate da personaggi che non sono mai al centro dell'azione, ma anche in questo caso non si tratta necessariamente di un male. Il fatto è che come non ci viene mai fatto un quadro completo di quello che succede nelle stanze del potere (che poteva essere una linea narrativa), allo stesso modo non ci viene neanche mostrato come una "persona qualunque" potrebbe vivere quei momenti. Il risultato è un libro che non è né carne né pesce, non riesce mai a decidersi ad andare con decisione da una parte o dall'altra e finisce per rimanere in un limbo di ignavia che ne fa precipitare la resa finale.
Ignoriamo, infine, se il finale sia tale perché deciso insieme dai due autori o se risulti in qualche modo monco a causa della dipartita di Clarke e riaggiustato alla bell'e meglio da Pohl, ma è decisamente del tutto insoddisfacente.
Insomma, questo incontro tra due dei più brillanti autori della SF avrebbe potuto essere il miglior testamento possibile per Clarke, che ci avrebbe lasciato un capolavoro (l'ennesimo) come sua ultima opera. Purtroppo si tratta di un romanzo a tratti raffazzonato, piuttosto inconcludente, che sembra non avere le idee chiare di dove voglia andare e di cosa voglia dire.
Un vero peccato.

giovedì 29 ottobre 2015

Jonathan Carroll - "Il Paese delle Pazze Risate"

Autore: Jonathan Carroll
Titolo: "Il Paese delle Pazze Risate"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2004

Non tutti gli scrittori iniziano col botto, alcuni riescono a mostrare tutte le proprie qualità solo a distanza di tempo dall'esordio.
Non è il caso di Jonathan Carroll.
Leggendo "Il Paese delle Pazze Risate" si capisce subito perché sia diventato, in brevissimo tempo, uno degli autori più apprezzati del panorama fantastico. In questo suo primo libro si possono già ritrovare tutti quegli elementi che lo hanno reso famoso e che rendono unico il suo stile e le sue storie.
La descrizione semplice, eppure così realistica, dei comportamenti di tutti i giorni, delle abitudini che ciascuno di noi ha, magari senza neanche saperlo. La delicatezza con cui tratteggia i rapporti tra le persone che si amano, rendendo i personaggi vivi, mai troppo affettati o caricaturali. La profondità che riesce a donare ai protagonisti dei suoi romanzi, al punto che ci sembra quasi di conoscerli fin da quando erano bambini.
Ma anche il sottile senso di inquietudine che riesce a trasmettere anche quando tutto sembra apparentemente normale. O, ancora, la straordinaria fantasia e il modo in cui, quasi in punta di piedi, introduce il fantastico nelle sue storie.
Ogni romanzo di Carroll è un perfetto mix di tutti questi elementi e, spesso, molti altri ancora, ognuno dosato con pazienza e sapienza.
"Il Paese delle Pazze Risate" non è solo una bella e originale storia, ma anche un romanzo di formazione e di crescita. D'altra parte molti sono i libri di Carroll in cui la trama è stratagemma per portare i protagonisti a conoscersi meglio, a scavare in profondità dentro sé stessi alla ricerca del loro vero io. Al suo esordio letterario l'autore americano trapiantato a Vienna non fa eccezione e ci presenta Thomas, un protagonista che non ha quasi nulla di quello che ci si aspetterebbe da un protagonista. Emotivamente insicuro, apparentemente non del tutto cresciuto, nonostante abbia un lavoro e una vita ormai stabile e indipendente, vive costantemente (anche per sua scelta) all'ombra di un padre ingombrante, di cui vorrebbe liberarsi, ma al contempo non può fare a meno di continuare a ricordare e citare. Lungo tutta la vicenda sono forse più gli errori che le cose giuste che fa: tanti sbagli, piccoli e grandi, capaci di renderlo un personaggio per certi versi anti-empatico, ma terribilmente umano.
Le vicende lo porteranno a doversi confrontare con il suo modo di intendere la figura paterna, da una parte con il padre putativo che aveva trovato nei libri che leggeva da piccolo, dall'altra con il suo vero padre, con cui non era mai riuscito a scendere a patti e con il quale giunge, infine, a una particolarissima riconciliazione.
"Il Paese delle Pazze Risate" appassiona, incuriosisce, risucchia il lettore nelle sue pagine e, quando meno ce lo si aspetterebbe, riesce a sconvolgerlo mettendo in dubbio tutto quanto. Dopo di che lo strazia e lo porta verso un finale di pura soddisfazione.
Non sono molti i libri in grado di fare questo, ma molti libri di Carroll ci riescono. Per questo sarebbe un peccato anticipare qualcosa della trama, meglio lasciare al lettore tutto il gusto di scoprire cosa l'autore ha in serbo per lui.

venerdì 26 giugno 2015

Nevil Shute - "L'Ultima Spiaggia"

Autore: Nevil Shute
Titolo: "L'Ultima Spiaggia"
Edizione: Mondadori - Urania Collezione
Anno: 2015

"L'Ultima Spiaggia" è un libro importante, giustamente considerato come uno dei classici della narrativa del dopo-bomba, che lascia un senso di vuoto difficile da colmare.
Il motivo, però, cambia a seconda del lettore.
Chi si fosse, forse un po' incautamente, accostato a questo romanzo di Nevil Shute attendendosi un storia avventurosa, una vicenda al cardiopalma su come l'equipaggio di un sommergibile tenti disperatamente di trovare una via di fuga, un'insperata salvezza per un genere umano apparentemente condannato all'estinzione dalle conseguenze di una guerra nucleare mondiale, sarebbe rimasto certamente deluso. Il senso di vuoto sarebbe assolutamente palpabile e giustificato.
Il motivo è semplice: non solo non è di questo che parla questo libro, ma non è neanche lo scopo con cui è stato scritto.
Shute non ci vuole raccontare una vicenda di "semplice" intrattenimento né, tanto meno, usare il libro per mandarci un messaggio e insegnarci qualcosa. Non si tratta neanche di una allegoria o una metafora dell'oggi, come tanti altri volumi di fantascienza.
"L'Ultima Spiaggia", in realtà, è una cronistoria: lenta, imparziale, senza inutili sentimentalismi, della fine. I personaggi del libro, seppur in alcuni casi appena abbozzati, riescono a risultare vividi, reali, perché pieni di difetti e, in alcuni casi, fissazioni.
Come reagiremmo noi se avessimo la certezza che più nulla si può fare? Che la fine avanza senza speranza per tutti? Che rimane poco tempo per fare tutto ciò che non abbiamo mai fatto prima?
Sono queste le domande che sembrano spingere avanti il libro e, leggendolo, viene facile pensare che, probabilmente, gran parte di noi si comporterebbe esattamente come i personaggi. Si cercherebbe di realizzare un ultimo grande sogno, magari, o ci si lascerebbe andare a qualche pazzia. Ma probabilmente sarebbero attività che ci stancherebbero ben presto e, prima o poi, si tornerebbe a concentrarsi su ciò che è più importante per noi.
Certo, qualche anno è passato da quando Shute ha dato alle stampe il suo romanzo per la prima volta, tanta acqua è passata sotto i ponti e anche le persone sono cambiate. Scritto oggi, lo stesso libro darebbe decisamente più spazio a scene generalizzate di caos e anarchia, con un governo ormai del tutto inutile e l'ordine civile scomparso, mentre il nostro autore ha una visione decisamente più ordinata e distinta della popolazione, come se tutti fossero perfetti gentleman e si comportassero come tali fino alla fine. Eppure, fatto salvo un certo modo di pensare ormai chiaramente superato (non migliore o peggiore, solo non più diffuso), pur dopo tanto tempo la forza del libro rimane immutata.
Con la sua prosa semplice, eppure efficace, i suoi personaggi tanto normali, tanto comuni, da poter esser noi stessi, le sue descrizioni delle attività di tutti i giorni, riesce a toccare le corde dell'animo umano. Il risultato è che, anche se non ce ne accorgiamo, comincia a scavarci dentro, per andare sempre più a fondo e, quando abbiamo finito, tutto ciò che ci lascia è un gran vuoto dentro.

mercoledì 10 giugno 2015

George R. R. Martin - "Il Banchetto dei Corvi"

Autore: George R. R. Martin
Titolo: "Il Banchetto dei Corvi"
Edizione: Mondadori - Urania Grandi Saghe
Anno: 2010

Con "Il Banchetto dei Corvi", quarto volume del Ciclo del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, facciamo la conoscenza di qualche nuovo "punto di vista". In alcuni casi personaggi nuovi, in altri casi personaggi che avevamo già incontrato nel percorso fino a qui, ma che, divenendo narratori, si svelano a noi sotto nuovi aspetti. Martin ci ha abituato, spesso, a come vedendo il mondo di Westeros con occhi diversi, cambi anche la percezione di cosa è giusto e cosa è sbagliato, al punto da riuscire a rendere comprensibili, quando non completamente accettabili o giustificabili, anche atti e scelte che fino a poco prima ci apparivano mostruosi. Così come alcuni fatti, narrati da un punto di vista o dall'altro, appaiono completamente diversi, proprio perché differente è il giudizio che ne dà colui che racconta, che quindi, implicitamente, tende a mostrare una verità differente.
Proprio in questa caratteristica, in questo totale relativismo della storia e dei personaggi, risiede una delle armi migliori dell'autore. Nulla è assoluto, poche sono le cose su cui tutti concordano.
Ma questo filtrare ogni vicenda attraverso gli occhi di un personaggio diverso, con il suo carattere specifico, le sue idee, le sue convinzioni e credenze, nonché le sue ambizioni e sogni, fa sì che non solo tutto il libro (e di riflesso tutta la saga) acquisisca automaticamente un livello in più di interesse, rispetto a una narrazione prettamente lineare, ma dona un enorme spessore proprio ai protagonisti che popolano questo mondo.
Un esempio lampante è stato, fin dal volume precedente, quello del personaggio di Jaime Lannister: trasformato da soggetto bidimensionale a protagonista a tutto tondo (non a caso ben presto divenuto uno dei preferiti dai lettori). Qualcosa di simile accade anche in questo "Il Banchetto dei Corvi", in cui a subire un approfondimento simile è la sorella gemella di Jaime: Cersei. Purtroppo per lei, però, vi è ben poco a cui aggrapparsi per farla risultare simpatica: nonostante i torti subiti, principalmente per il solo fatto di essere una donna in un mondo estremamente maschilista, non si riesce a parteggiare per lei. Le sue scelte estremamente egoiste, il suo atteggiamento sprezzante e di superiorità nei confronti di chiunque la circondi, la sua miopia delle conseguenze, ogni volta che prende una decisione, fanno sì che acquisisca certamente molto spessore, ma che divenga perfino più antipatica di prima.
Ma perché concentrarsi tanto, in questa recensione, su Cersei?
Principalmente perché è al suo punto di vista che viene demandata buona parte della narrazione di questo libro. Qualcosa di interessante accade a Dorne, Samwell vive le sue avventure, qualcuno ci lascia per sempre, Jaime sembra finalmente stia imparando a usare la testa, invece della spada per risolvere i problemi, Brienne si impegna in una ricerca forse infinita e senza speranza, Ditocorto prosegue con i suoi intrighi garantendosi gradualmente sempre più potere e molte, pessime, decisioni vengono prese dalle parti di Approdo del Re. Tanti piccoli colpi di scena punteggiano il libro e rendono la lettura sempre appassionante, ma in generale si ha l'impressione che questo sia un po' un volume di passaggio, in cui preparare il terreno per qualcosa che deve venire.
Certamente anche la scelta di suddividere i personaggi tra questo e il successivo (La Danza dei Draghi), non ha certo aiutato. Molto, tra l'altro, si potrebbe dire sull'effettiva utilità di questa decisione. A detta di Martin, infatti, ha preferito inserire metà dei personaggi per raccontare tutta la storia di ognuno di loro, invece che metà storia di tutti. Peccato che, come sempre è accaduto fino a ora, non vi sia alcun inizio e alcuna fine (se non con la morte) per i personaggi, ma solo un continuo scorrere che, per comodità, viene ripreso e interrotto poco prima o poco dopo. In questo caso, inoltre, non vi è neanche un grosso evento come una battaglia o la morte di un protagonista, a poter fare da spartiacque.
Probabilmente, dunque, se Martin avesse continuato come fatto fino a ora, portando avanti le vicende di tutti i personaggi (magari anche limitando un po' i pensieri ripetitivi e ridondanti di Cersei, per quanto utili a farne capire l'atteggiamento ossessivo), mescolando così quarto e quinto volume, ne sarebbe uscito un libro migliore. Anche così, però, è sicuramente una lettura consigliata a tutti gli appassionati della saga.

venerdì 10 aprile 2015

Valerio Evangelisti - "Il Sole dell'Avvenire - Chi ha del Ferro ha del Pane"

Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire - Chi ha del Ferro ha del Pane"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2014

In questo secondo volume, di tre, le vicende sembrano riprendere là dove le avevamo lasciate al termine del primo "Il Sole dell'Avvenire". I protagonisti non sono grandi uomini, generali, eroi, geni, non sono personalità che hanno fatto la storia. Sono, semmai, coloro che la storia l'hanno subita, in tutti i sensi. I personaggi di Evangelisti sono persone normali, comuni, che il più delle volte cercano solo di sopravvivere in un mondo e in una realtà che fa sempre i conti senza di loro.
Proprio nella profonda umanità dei protagonisti, tutti loro, sia da quelli di primo piano che quelli che si muovono un po' sullo sfondo, risiede una delle principali qualità di questo romanzo (così come del precedente). Alcuni sono simpatici, altri meno, ma tutti, con le loro qualità e, soprattutto, i loro difetti, ci sembrano fin da subito veri, reali, e non solo quei personaggi empatici, ma un po' bidimensionali, di tanti libri. Reglio, Eleuteria, CinCin, ma anche Canzio e tutti gli altri, escono letteralmente dalle pagine, si fanno carne e sangue davanti ai nostri occhi, divenendo vecchi amici che ci fanno ridere con le loro battute, ma anche preoccupare e piangere con le loro disgrazie.
Ma "Chi ha del Ferro ha del Pane", non è solo una storia di varia umanità, spesso di povertà e miseria. E' un romanzo che racconta la Storia, quella con la S maiuscola, ma lo fa dal punto di vista degli ultimi, di coloro che la storia ha il più delle volte escluso o dimenticato. Così non vediamo le stanze del potere, perfino durante i frequenti scioperi che punteggiano il volume, anche quelli più piccoli, mai una volta siamo dove vengono prese le decisioni. Tutte le scelte ci vengono riferite. E a noi lettori, così come ai protagonisti, non rimane che prenderne atto. Magari arrabbiarsi, decidere di opporsi e combattere o fuggire, ma mai veniamo interpellati o possiamo partecipare in alcun modo al processo decisionale.
Il lettore diviene, in questo modo, protagonista a sua volta del libro: fratello, figlio, amico, compagno dei personaggi che vi si muovono e che tanto patiscono.
Intanto, la Storia va avanti. Leggi vengono emanate, guerre vengono dichiarate. Ai protagonisti e a noi lettori non rimane che scendere a patti con tutto ciò. Ci si arrangia, si fa buon viso a cattivo gioco e, quando possibile, si cerca di portar a casa la pelle. Evangelisti ci risparmia il racconto in prima persona del massacro che fu la Prima Guerra Mondiale, preferisce, piuttosto, soffermarsi su ciò che avveniva in Italia, nelle campagne, e di come a mandare avanti tutto, dai campi coltivati alle fabbriche, fosse chi era rimasto: in prevalenza le donne.
Nonostante tutti i sacrifici, il romanzo ci mostra come per alcuni non vi sia mai riconoscenza, anzi, forse solo altre privazioni.
Siamo lontani come stile e come toni dai romanzi del ciclo di Eymerich che hanno reso celebre lo scrittore bolognese, eppure le similitudini sono molte più di quante si potrebbe credere. La fantascienza è spesso stata allegoria del presente e anche Evangelisti ha sempre usato il futuro per raccontare l'oggi.  Nel ciclo de "Il Sole dell'Avvenire" non è diverso: non più il futuro, bensì il passato, ma sempre usato come lente per vedere, analizzare e comprendere meglio l'oggi. Le battaglie per i propri diritti dei lavoratori dell'inizio del 1900 non sono dissimili per motivazioni da quelle dei lavoratori dell'inizio del 2000: il precariato, le ore lavorative, uno stipendio minimo che consenta di vivere e non solo sopravvivere, il riconoscimento degli stessi diritti per tutti e stipendi uguali a fronte di uguali lavori svolti, sono questioni, purtroppo, estremamente attuali.
Valerio Evangelisti, dunque, ci consegna un romanzo e una saga quantomai contemporanei, nonostante siano ambientati quasi un secolo fa. Un libro e un ciclo di straordinaria forza, grazie ai personaggi di cui è costellato, e di grande valore educativo e sociale per ciò che racconta e mostra.
Se non fosse automatico per ogni studente odiare qualsiasi libro gli venga dato da leggere, questi volumi bisognerebbe studiarli a scuola.