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martedì 18 marzo 2014

True Detective


HBO, si sa, è sinonimo di qualità. I titoli sfornati negli ultimi anni sono uno meglio dell’altro e hanno contribuito a spedire l’emittente americana direttamente nell’Olimpo delle reti preferite dai fan di serie-tv. I motivi son tanti e al contempo semplici: storie interessanti, scritte bene, recitate anche meglio, scenografie, costumi e regia paragonabili ai film di Hollywood, nessuna remora a mostrare nudi, sesso e violenza là dove ce n’è bisogno (e a volte anche dove non ce n’è).

True Detective - Stagione 1
Uno degli ultimi titoli nati è proprio True Detective. Una serie-tv antologica, nel senso che ogni stagione sarà dedicata a un caso diverso, con nuovi attori, nuovi personaggi, nuove ambientazioni. Non abbiamo problemi, quindi, a parlare di questo titolo senza aspettare le prossime stagioni, se ci saranno, perché tutto nasce e finisce qui.
La serie è prodotta, tra gli altri, anche da Matthew McConaughey e Woody Harrelson che interpretano, rispettivamente, Rust “Rusty” Cohle e Martin “Marty” Hart, la coppia di detective protagonista di questa stagione. Chiaro, dunque, l’interesse da parte dei due attori nei confronti del plot, tanto da esporsi in prima persona mettendoci i soldi.

Fin dalla prima puntata è subito chiaro perché McConaughey e Harrelson credessero tanto in questo titolo. La serie funziona alla grande: lo script riesce a incuriosire e a calamitare l’attenzione del telespettatore.
La storia si dipana su piani temporali differenti eppure paralleli. Diversi sono gli anni importanti in cui succedono le cose. Uno è il 2013, Cohle e Hart non sono più in polizia, sono stati convocati per porgli alcune domande su un loro vecchio caso risalente al 1995. L’ambientazione è la Lousiana, quindi non sorprende che ufficialmente i rapporti di quel caso siano andati distrutti a causa dell’uragano Katrina, perciò due nuovi detective vogliono porgli domande su ciò che c’era scritto in quei fascicoli.
Comincia, dunque, il racconto di quei fatti, e l’azione si sposta nel 1995 per mostrarci in diretta ciò che avviene. Un omicidio, apparentemente rituale, quale mai si era visto da quelle parti. Gli indizi sono tanti, ma sembrano non portare da nessuna parte.
Cohle e Hart, ai tempi, erano colleghi, anche se il loro rapporto appare un po’ singolare e, a tratti, burrascoso. Cohle è strano, chiuso in sé stesso, fa discorsi che Hart fatica a capire sul significato dell’esistenza o, meglio, il suo non significato. Hart, d’altra parte, è un personaggio più terra-terra, legato alla sua famiglia, innamorato di sua moglie e delle sue figlie, ma incapace di tener allacciati i pantaloni appena una ragazza si mostra interessata. Non potrebbe esserci una coppia più diversa e, forse proprio per questo, sullo schermo funziona. Naturalmente il merito è soprattutto di McConaughey e Harrelson, perfettamente calati nella parte. Se 
ce lo si poteva abbastanza aspettare per quanto riguarda Harrelson, dato che Hart è un personaggio nelle sue corde, tutto sommato piuttosto simile ad altri che ha già interpretato in passato, McConaughey è strabiliante e viene quasi spontaneo chiedersi dove abbia, di punto in bianco, imparato a recitare così, dopo che per anni è stato un attore decisamente monodimensionale (dopo aver visto la serie, però, non meraviglia assolutamente che abbia vinto l'Oscar come Miglior Attore Protagonista).
La coppia, in ogni caso, non funziona solo per il pubblico, ma funziona anche nel lavorare ai casi, con due atteggiamenti e modi di procedere diametralmente opposti, che fan sì che ciascuno osservi ogni cosa da punti di vista nuovi e per lui inusuali, portando poi a dei risultati concreti.
Ben presto, nonostante le pressioni politiche e religiose che premono sulle loro spalle, Cohle e Hart cominciano a trovare sempre più indizi riguardo a quella che sembrerebbe essere una sorta di culto o di setta legata al Re in Giallo. Alcuni simboli si ripetono, come la spirale, mentre alcuni nomi si fanno sempre più frequenti in bocca agli interrogati, come Carcosa.

A questo punto lo spettatore che sia anche lettore appassionato, non può non notare tutte le citazioni trasversali all’opera più famosa di Robert W. Chambers, l’antologia di racconti intitolata proprio “Il Re in Giallo”. Un libro che ispirò anche il più celebre Lovecraft nella creazione di molti dei suoi miti e, soprattutto, del più famoso pseudo-biblia di tutti i tempi: il Necronomicon. Perché anche nell’opera di Chambers, in realtà, Il Re in Giallo è il titolo di una rappresentazione teatrale, di un libello, fantastico, capace di portare alla follia chi ne entrasse in possesso e lo leggesse. Chambers ne riporta, in alcuni momenti, dei frammenti, stralci poetici, puntualmente citati e riportati alla lettere nella serie-tv.
Il mistero si infittisce e lo spettatore vede salire sempre più le proprie aspettative.
Il caso sembra giungere a una svolta con la morte di due sospetti. Forse è tutto finito, i colpevoli sono stati uccisi, giustizia è stata fatta. Eppure qualcosa non torna. Forse non son stati loro o, forse, non son stati solo loro. Forse, anzi, quasi certamente, c’è dietro qualcosa d’altro. Qualcun altro. Gente abbastanza potente e abbastanza in alto da aver messo a tacere le sparizioni di decine di donne e bambini nel corso degli anni per continuare le proprie pratiche indisturbati. Qualcuno che ha creato un vero e proprio culto attorno al Re in Giallo.
Attraverso i piani temporali, che a un certo punto si arricchiscono anche del 2002, l’indagine prosegue tra ostacoli, strade a fondo chiuso e nuovi indizi.

Nella seconda metà della stagione, lo spettatore più avvezzo alle serie-tv non può non notare qualche somiglianza con un altro titolo di qualche anno fa, di origine inglese. Mi riferisco alla miniserie in tre film “Red Riding” (di cui avevamo parlato qui).
I punti di contatto sembrano evidenti.
Una regione pesantemente intaccata dalla miseria, dalla povertà e dall’ignoranza. Un gruppo di persone potenti, in grado di fare tutto ciò che vogliono. Bambini scomparsi nell’arco di decine di anni, le cui sparizioni vengono passate sotto silenzio dalle autorità o per le quali vengono trovati capri espiatori di comodo.
Fin qui il plot sembrerebbe essere simile, ma non necessariamente debitore l’uno verso l’altro. Ciò che cambia tutto è l’inserimento di un personaggio: un travestito con informazioni importanti per Cohle, che gli rivela di esser stato presente a certi riti (molto simile al character interpretato da Robert Sheehan in “Red Riding”) e un video che viene ritrovato. In esso possiamo assistere proprio a un ritrovo del culto del Re in Giallo, a cui partecipano, con ogni probabilità, le importanti personalità di cui si diceva. Nessun modo per identificarli, però, perché indossano tutti una maschera, la maschera di un animale. Diverso per ognuno. Proprio come in “Red Riding” i membri del gruppo erano soliti chiamarsi tra loro con nomi di animali.
Il senso di dejà-vù è forte.
Eppure, fino a questo punto, la serie è scritta così bene che si è ben disposti a passarci sopra per andare avanti, per vedere dove si vuole andare a parare.

Purtroppo, però, il finale non appare all’altezza del resto della stagione e delle aspettative.
Nell’ultimo episodio vi è una svolta nelle indagini con un escamotage un po’ tirato per i capelli, ma che, tutto sommato, ci può anche stare. I nostri detective arrivano a colui che sembrerebbe poter essere l’esecutore materiale di molti degli omicidi, quantomeno una sorta di boia o tuttofare che sceglieva e rapiva i bambini per la setta. Nonché il custode di un luogo oscuro, sperduto tra le paludi, che arriviamo a identificare con la Carcosa di cui tanti testimoni avevano parlato.
Il confronto è brutale e i nostri protagonisti rischiano di lasciarci la pelle. Ma il cattivo viene ucciso e loro si salvano.
Fine.

Siamo persuasi che questa non fosse, come dicono in molti, una serie basata tanto sul plot, quanto sui personaggi. Ma un finale simile risulta alquanto indigesto. I protagonisti ritornano a mettere insieme la coppia (scoppiata nel 2002) dopo undici anni solo perché sono convinti che la setta che c’è dietro a quelle sparizioni e a quegli omicidi vada fermata. Una setta che, ormai ne sono certi, coinvolge persone altolocate. Tanto che prima di recarsi all’appuntamento col destino, fanno un gran numero di copie di tutte le prove che hanno, da spedire a giornali, polizia, FBI, tv locali e nazionali.
Eppure, dopo aver eliminato il mero esecutore e aver liquidato la faccenda della setta con una frettolosa frase pronunciata al tg “le autorità hanno messo a tacere le voci sul coinvolgimento di persone importanti”, per loro sembra che la vicenda sia finita. Sinceramente ci sembra un po’ poco. Non pretendevamo che Cohle e Hart riuscissero a scoperchiare tutto il marcio: il finale con i cattivi che rimangono impuniti ci può anche stare, nel momento in cui si vuole fare una serie che punti un po’ più al realismo. Quello che non torna è l’atteggiamento dei personaggi, che sembrano aver subito un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto da dimenticare completamente tutto ciò per cui stavano combattendo, lasciandoselo dietro le spalle quasi non fosse più importante.
Un simile twist avrebbe avuto più senso se colui che avevano fatto fuori si fosse rivelato, in qualche modo, una figura di spicco della setta. Una sorta di santone, magari una specie di oracolo a cui tante persone potenti si rivolgevano, nonostante fosse, per usare le loro stesse parole, “un bifolco”. Difficile, infatti, credere che potesse avere un ascendente di tipo intellettuale o carismatico, da qui l’idea che, invece, magari l’essere portato per delle crisi epilettiche, potesse essere da loro interpretato come qualcosa di metafisico.
Purtroppo non vi sono tracce di alcuna sottotrama di questo tipo.

E se pure si tratta di una serie che punta l’attenzione sui personaggi, sulla loro evoluzione, sul rapporto che vi è tra loro, in cui la trama generale, l’indagine, passa in secondo piano, al punto da poter perfino esser messa da parte a un certo punto, il finale risulta ugualmente deludente. È deludente proprio perché la trama generale rimane aperta, il caso non è davvero chiuso, tutt’altro, quindi i personaggi non possono comportarsi come se lo fosse e, finalmente, andare avanti con la loro vita. L’ossessione di Cohle per questi omicidi è ancora lì, perché gli assassini sono ancora là fuori, eppure gli sceneggiatori, nelle ultime immagini, ci mostrano un Rusty finalmente in pace con sé stesso e con i suoi demoni interiori. Un uomo che, convinto di aver fatto giustizia, finalmente riesce a guardare avanti, a ciò che resta della sua vita, invece che continuamente indietro.
Il finale, dunque, risulta essere alquanto incoerente con il resto della serie e perfino nei confronti dei personaggi, fino a quel momento gestiti benissimo. L’impressione è che sia un po’ scappata di mano agli sceneggiatori la gestione dei tempi, di cosa mostrare poco per volta e si sia dovuti giungere frettolosamente a una conclusione con l’ultima puntata. Forse, con un altro paio di episodi ancora a disposizione, più tempo e spazio per gestire tutte le sottotrame, ora staremmo parlando di un capolavoro a tutto tondo.
Così, invece, rimane una serie di qualità superiore, ottimamente gestita fino all’ultima puntata, ma con un finale decisamente non all’altezza.

giovedì 6 marzo 2014

Grant Morrison & Dave McKean - "Batman: Arkham Asylum - Absolute Edition"

Titolo: “Batman: Arkham Asylum – Absolute Edition”
Autore: Grant Morrison e Dave McKean
Edizione: RW Lion
Anno: 2012

Grant Morrison è considerato uno degli autori di fumetti più brillanti degli ultimi anni, salito alla ribalta del mondo dei comics grazie alle sue pregevolissime run di alcuni dei maggiori personaggi della DC, nonché la sua interpretazione di Animal Man e diverse testate originali come “The Invisibles”.
Prima, però, che diventasse una sorta di superstar del fumetto supereroistico, era un autore inglese quasi anonimo. La svolta nella sua carriera è arrivata proprio grazie ad “Arkham Asylum”, una storia che presentava il personaggio di Batman in maniera del tutto innovativa e che, a distanza di anni, riesce a conservare tutte le proprie qualità.
Ai tempi, ovviamente, Morrison non sapeva ancora che questa storia gli avrebbe aperto le porte del gotha del fumetto americano. Per lui era un trampolino di lancio che andava sfruttato al mille per cento per ottenere quanta più spinta possibile per arrivare in alto. Così fece, andando a confezionare una vicenda e una sceneggiatura così complessa e infarcita di simbolismi, metafore, rimandi incrociati, da essere considerata un capolavoro ancora oggi.
Non meraviglia, quindi, che “Arkham Asylum” abbia avuto un successo esagerato e che Morrison sia stato immediatamente portato in palmo di mano attraverso l’Atlantico. Semmai meraviglia che un’opera così complessa, così stratificata e piena di livelli di lettura diversi, abbia fatto così tanta presa anche sulla massa, sul pubblico mainstream. Certamente i disegni di McKean (per quanto il termine “disegni” sia estremamente limitante nel caso dell’artista inglese) hanno aiutato, ammantando tutta l’opera di ulteriore pregio, anche visivo, rendendola in grado di spiccare in maniera nettissima tra la massa.
Eppure rimane il sospetto che i lettori americani che ebbero il privilegio di leggere per primi queste pagine, non abbiano percepito e compreso appieno la profondità di quest’opera. Il motivo è semplice: quei primi albi sequenziali presentavano solo ed esclusivamente i disegni, le tavole, i dialoghi della storia, senza alcun aiuto esterno, nessun redazionale che spiegasse, che svelasse tutti i meccanismi e i segreti celati in ogni pagina.
Più che il grande formato, capace di rendere al meglio l’opera di McKean, ciò che rende preziosa un’edizione come questa è ciò che viene dopo il fumetto vero e proprio. La sceneggiatura originale di Morrison, con tutti i suoi appunti, i suoi commenti, i suoi suggerimenti. Con tutti gli incisi in cui spiega esattamente cosa vuole comunicare e perché, cosa significa ogni singolo oggetto sparso tra le pagine, quale il suo valore metafisico, quale il rimando alle carte dei tarocchi o a qualche teoria filosofica o psicologica.
E se già i testi originali di Morrison non bastassero, ecco dei commenti posticci, in cui l’autore stesso disamina e illustra più approfonditamente ciò che lo ha portato a prendere certe decisioni e a inserire certe scene. Insomma, un vero e proprio tuffo in “Arkham Asylum”: fino in fondo, fino a toccarne la vera essenza illuminandone ogni più angusto e recondito particolare, per poterne riemergere meravigliati e ammirati.
Se volete leggere un’opera del tutto fuori dal coro sull’uomo pipistrello, questo è pane per i vostri denti. E se volete leggere “Arkham Asylum”, la cosa migliore è proprio farlo avendo tra le mani un’edizione come questa, che possa permettere di apprezzare il fumetto al meglio e in tutto e per tutto.