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martedì 30 dicembre 2014

Paolo Bacigalupi - "La Ragazza Meccanica"

Autore: Paolo Bacigalupi
Titolo: "La Ragazza Meccanica"
Edizione: Multiplayer.it
Anno: 2014

Paolo Bacigalupi è un autore che, almeno in Italia, è salito agli onori della cronaca solo in occasione della vittoria del Premio Hugo, proprio con questo “La Ragazza Meccanica”. In realtà Bacigalupi è piuttosto noto oltreoceano ed è autore di diversi libri, sia per adulti che per young-adult.
Sono rimasto un po’ sorpreso che un libro come “La Ragazza Meccanica”, vincitore del Premio Hugo (cioè la più alta e importante onorificenza per la letteratura fantastica in lingua inglese), sia stato acquistato e pubblicato in Italia da Multiplayer Edizioni. Sia chiaro, non ho nulla contro la casa editrice, ma sfogliandone il catalogo si può vedere come sia specializzata soprattutto in novelisations di videogiochi, quindi pubblicazioni con un tenore ben diverso da questo romanzo. Soprattutto a sorprendermi è stato il fatto che un libro che tanto interesse ha suscitano oltreoceano, presentato come una vera e propria rivoluzione nella fantascienza, non fosse uscito ben prima presso altre case editrici più specializzate, come Urania Mondadori, Fanucci, Editrice Nord, etc. di solito molto attente al mercato nord-americano.
Ma veniamo al libro in questione.
Personalmente non ho particolarmente amato lo stile di Bacigalupi, ma, qui, bisogna purtroppo aprire una nuova parentesi. Avendo avuto tra le mani solo l’edizione italiana e non potendola confrontare con l’originale, non posso dire fino a che punto alcune scelte siano opera dell’autore e quali, invece, non magari frutto della traduzione. Il dubbio mi viene soprattutto a causa di una serie di scelte dell’editore italiano che mi vedono del tutto in disaccordo.
La carta con cui è realizzato il libro è molto dura, così come la rilegatura. L’impressione è di avere tra le mani un volume che sarebbe andato benissimo se avesse avuto la metà della pagine, ma che con queste dimensioni diventa troppo rigido, difficile da aprire senza il rischio di spaccare la colla della rilegatura. Una critica, inoltre, è necessario farla alla fase di controllo dei refusi prima di andare in stampa che, ci sembra, in questo caso è evidentemente stata del tutto assente. Non c’è praticamente pagina in cui non vi sia un errore di battitura, una parola storpiata, uno spazio in più o in meno, qualche accento o apostrofo dimenticato per strada. Infine, ma questo è gusto piuttosto personale, anche la scelta dei caratteri dell’impaginazione (titolo, autore, numero delle pagine in alto e in basso) è stata sbagliata.
Tutte scelte che, di per sé, sarebbero un difetto minimo, ma sommate insieme comunicano una certa mancanza di cura del prodotto.
Cosa non è una scelta, ma un errori veri e propri, però, sono diversi passaggi della traduzione del libro. Per fare un esempio su tutti, il personaggio di Kanna rimane per praticamente tutto il libro in una sorta di limbo sessuale, passando spesso e volentieri da femmina a maschio e viceversa. Succede subito all’inizio, in cui si è quasi portati a pensare che sia una scelta stilistica voluta in attesa di scoprire qualche rivelazione su di lei, quasi scompare nella parte centrale del libro, per poi riappare di nuovo alla fine. Quel continuo riferirsi a lei con “gli” invece di “le”, inoltre, fa pure temere che chi ha eseguito la traduzione non sappia fino in fondo l’italiano.
Non sappiamo, invece, se è una scelta della traduzione o dell’autore la scrittura tutta al presente, una scelta che ai più potrebbe far storcere il naso in quanto sembra togliere pathos a tutta la narrazione. Sospettiamo, comunque, che di chiunque sia stata la decisione, sia probabilmente stata influenzata dal notevole successo che stanno riscuotendo negli ultimi tempi diversi young-adult scritti proprio con questo stile (come la trilogia di “Hunger Games”, etc.).
Dal punto di vista dei contenuti, invece, bastano poche pagine per capire cosa abbia colpito i giudici del Premio Hugo per deliberare il vincitore. “La Ragazza Meccanica” è un fuoco di fila di invenzioni, di concetti e di situazioni effettivamente originali e innovativi. Il mondo in cui si viene sbalzati è ampissimo, complesso, estremamente realistico nelle descrizioni e plausibile nelle dinamiche che descrive. Risulta fin da subito evidente che prima della stesura del libro deve esserci stato un enorme impegno in fase di documentazione, in primis sulla Tailandia, e, a seguire, un grande lavoro per incastrare e far combaciare tutti i pezzi di quel gigantesco affresco che è la realtà del futuro de “La Ragazza Meccanica”.
La storia in sé, con i suoi tanti colpi di scena, ma, soprattutto, con i suoi tanti tradimenti, riesce a tenere attaccati al libro, mai certi di cosa succederà in seguito. Più volte, infatti, la vicenda sembra instradarsi in percorsi già tracciati, classici, quasi scontati, ma solo per essere ben presto capovolta. Lo stesso dicasi per i personaggi sia principali che secondari. Di stereotipati ce ne sono ben pochi, tutti quelli che agiscono attivamente, anche se a una prima occhiata appaiono piatti e bidimensionali, ben presto mostrano una complessità e tutta una serie di motivazioni che giustificano le loro azioni. Per quanto per alcuni risulti sempre difficile riuscire a parteggiare, a un certo punto non si può negare che abbiano uno scopo e che, guardando le cose dal loro punto di vista, tutto sommato ciò che fanno non è il male.
Per assurdo, tra tanti personaggi tridimensionali, l’unica a sembrare meno caratterizzata, per buona parte del libro, è proprio colei che dà il titolo al romanzo. Emiko sembra la classica ragazza debole e indifesa, in grado di riscattarsi da una vita di soprusi solo attraverso l’intervento salvatore di un uomo che si innamori di lei, capace di vedere oltre le apparenze.
Le cose non andranno esattamente così, per fortuna, ma preferiamo non rivelare di più per non togliere la sorpresa ai lettori.
In definitiva “La Ragazza Meccanica” è un gran bel romanzo, pieno di idee e di inventiva che non meraviglia abbia vinto il Premio Hugo. L’edizione italiana è, purtroppo, falcidiata da diverse pecche, sia nella cura editoriale che meramente realizzativi, ciò nonostante non possiamo assolutamente esimerci dal consigliarne la lettura.

martedì 16 settembre 2014

Andreas Eschbach - "Lo Specchio di Dio"

Autore: Andreas Eschbach
Titolo: "Lo Specchio di Dio"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011

A tre anni di distanza dal capolavoro “Miliardi di Tappeti di Capelli”, che lo ha catapultato al centro dell’attenzione mondiale della letteratura di fantascienza, Andreas Eschbach dà alle stampe questo “Lo Specchio di Dio”.
Si tratta di un libro molto diverso da quello che gli ha dato la notorietà. Non più fantascienza pura, ambientata nello spazio profondo, tra mondi e galassie distantissime da noi (non solo geograficamente), bensì un romanzo che si svolge sulla terra, in un domani che sembra già oggi. “Lo Specchio di Dio”, anzi, è soprattutto un thriller, per quanto si poggi su basi assolutamente fantascientifiche.
Cosa succederebbe se uno scavo archeologico in palestina riportasse alla luce, sepolto duemila anni fa, il libretto di istruzioni di una videocamera che non è ancora stata neanche lanciata sul mercato? Davvero qualcuno ha viaggiato nel tempo ed è tornato indietro fino al tempo di Gesù o è solo un’elaborata truffa? A che scopo, poi? E se davvero qualcuno è tornato indietro, questo significa forse che esiste, da qualche parte, una videocamera che ha ripreso Gesù Cristo?
Questi sono gli interrogativi in cui Eschbach ci catapulta fin dalle prime pagine del libro.
I personaggi sono diversi, alcuni ben caratterizzati e capaci di riservare anche qualche sorpresa, qualcuno, invece, purtroppo un po’ stereotipato.
L’intreccio, sulla carta molto interessante, in realtà, all’inizio, arranca un po’. Troppo spazio, infatti, viene probabilmente lasciato allo scrittore di fantascienza tedesco (forse una auto-citazione di Eschbach?) assunto come consulente e alle sue elucubrazioni, nonché al racconto del background di tutti i personaggi. Troppe domande senza risposta e senza reale costrutto nello sviluppo della trama, troppe informazioni in una volta sola, che rischiano di rallentare inutilmente il ritmo della narrazione.
Passato questo primo scoglio, però, finalmente il romanzo prende velocità e le vicende iniziano a susseguirsi a ritmo frenetico fino a diventare una vera e propria caccia al tesoro in gara contro il tempo e con diversi partecipanti. Tra inseguimenti, indizi, false piste, pedinamenti e scontri a fuoco il romanzo decolla.
Questo, più o meno, fino a tre quarti, quando nuovamente i ritmi calano, rallentano quasi fino a fermarsi, per poi riservare il colpo di coda finale. Un finale che, nel suo essere quanto di più classicamente scontato ci si potrebbe aspettare, in realtà lascia il lettore con il sorriso sulle labbra.
“Lo Specchio di Dio” è un romanzo molto diverso e molto distante, anche per qualità, rispetto a “Miliardi di Tappeti di Capelli”. Certamente non è destinato a lasciare il segno come il libro d’esordio dello scrittore tedesco, né si tratta di qualcosa di particolarmente nuovo e originale. Già molti scrittori si sono soffermati sul tema del viaggio nel tempo accostato alla figura di Gesù Cristo, sia in romanzi che in racconti (come Philip K. Dick o Michael Moorcock, per citare i primi due che mi vengono in mente). L’idea iniziale di Eschbach, però, è buona e lo sviluppo della vicenda altrettanto. Forse sarebbe stato apprezzabile un maggiore coraggio nell’osare nel finale, ma “Lo Specchio di Dio” è pur sempre una validissima lettura, sicuramente consigliabile sia a chi ama la fantascienza, che ai seguaci del thriller.

giovedì 3 aprile 2014

Valerio Evangelisti - "Il Sole dell'Avvenire"

Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2013

Valerio Evangelisti è considerato lo scrittore di fantascienza più importante d’Italia, soprattutto grazie al suo ciclo dell’Inquisitore Eymerich. Ma l’autore bolognese, nella sua carriera, non si è confrontato solo con la fantascienza o il fantastico in generale. Tra i suoi libri troviamo il western di “Antracite”, l’avventura del suo ciclo dei pirati, ma anche il vero e proprio romanzo storico. Storie che usano, quando serve, personaggi inventati, ma profondamente ancorate nella realtà, in grado di far appassionare il lettore alle vicende narrate e, al contempo, di mostrargli uno spaccato del passato, di mettere in luce dinamiche sociali e politiche che, in molti casi, hanno contribuito a creare il mondo in cui viviamo oggi.
Romanzi come “Noi Saremo Tutto” e “One Big Union”, sui sindacati negli Stati Uniti, o “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato”, sui rapporti tra il Messico e gli Stati Uniti, non sono solo opere di narrativa entrate nel cuore di migliaia di lettori, ma libri che andrebbero fatti leggere nelle scuole.
Da poco ce n’è un altro destinato a entrare nel gruppo.
“Il Sole dell’Avvenire”, ultimo nato e primo di una trilogia, lascia da parte le vicende d’oltreoceano e si concentra sui fatti di casa nostra. Protagonisti sono, infatti, i braccianti, i contadini e i mezzadri romagnoli alla fine del 1800. Un vero e proprio romanzo generazionale, protagonista una famiglia che attraverserà, purtroppo non indenne, quegli anni, permettendoci uno scorcio della vita a quel tempo e di farci rendere conto che, certe cose, sembrano non cambiare mai.
Fin dalle prime pagine facciamo la conoscenza di Attilio Verardi, un uomo semplice, che si arrangia come può tra mille piccoli lavoretti occasionali o stagionali, ma con una incrollabile fede garibaldina. È innamorato di Rosa, ricambiato, ma osteggiato dalla famiglia di lei, mezzadri certamente non ricchi, ma che considerano coloro che si trovano sotto di loro nella scala sociale come dei disgraziati e degli scansafatiche, quasi fosse una loro scelta quella di vivere nella povertà.
Nonostante tutte queste differenze, i due riusciranno a sposarsi, ma non sarà che l’inizio di una serie, apparentemente infinita, di sciagure, di ingiustizie e di sofferenze, per loro e i loro famigliari.
“Il Sole dell’Avvenire” si differenzia rispetto ad alcuni libri del recente passato di Evangelisti anche per la scelta dei protagonisti. Nel ciclo dei pirati, ma anche in “Noi Saremo Tutto” o “One Big Union”, l’autore bolognese era stato costretto a scegliere dei protagonisti che fossero dei doppiogiochisti, dei traditori, delle spie. Personaggi, dunque, in cui era difficile immedesimarsi, ma ottimi per poter raccontare ciò che avveniva da entrambi i lati delle barricate. Per quanto la lettura procedesse spedita e le vicende fossero appassionanti, sembrava spesso mancare qualcosa, cioè una qualche forma di empatia nei confronti dei protagonisti, troppo viscidi od odiosi per poterla ispirare. Nel caso de “Il Sole dell’Avvenire”, invece, fin dalle prime pagine veniamo catturati dall’estrema umanità dei protagonisti, personaggi a tutto tondo, ma anche positivi, buoni, vessati da troppe sfortune per le loro fragili spalle e che sembrano dover crollare da un istante all’altro. Non si può non provare un immediato trasporto per Attilio, per Rosa, per il loro figlio Canzio, ma questo porta con sé un inconveniente di altro tipo.
Non ho, infatti, problemi ad ammettere di averci messo molto più del solito per completare la lettura di questo libro, rispetto ai miei standard. Il motivo è semplice: nonostante la bellezza del romanzo, delle ricostruzioni, dei personaggi (o forse proprio per quello), a volte mi era insopportabile l’idea di leggere di altre ingiustizie ai danni dei protagonisti, verso i quali provavo un trasporto non dissimile da persone vere.
Ma i meriti di questa opera di Valerio Evangelisti non si esauriscono nell’aver creato personaggi che entrano, letteralmente, nel cuore dei lettori, al contrario. Come sempre lo scrittore bolognese è attento alle dinamiche sociali e politiche del mondo contemporaneo. Nei suoi libri di fantascienza ci ha spesso mostrato elucubrazioni su ciò a cui avrebbero portato, estremizzate, certe scelte, certi movimenti attuali. L’allegoria, che era critica sociale e politica, tipica dei romanzieri sci-fi di maggiore spessore come Dick, Heinlein, Sturgeon, etc. Evangelisti la adatta anche ai romanzi d’avventura e storici. Per chiarirci il suo messaggio lui sceglie di usare anche il passato, come a volerci dimostrare che alcune cose non sono una novità, ma solo un riproporsi di ciò che era già avvenuto in passato e che per questo bisogna essere sempre ben vigili.
Proprio questo fa anche con “Il Sole dell’Avvenire”: i braccianti, sempre alla ricerca di un lavoro che, purtroppo, è solo stagionale o a scadenza, altro non sono che i precari di oggi. Lavoratori senza garanzie per il domani, che si adattano a fare un po’ quello che trovano, spesso disprezzati perfino da quei lavoratori che han qualche diritto in più, troppo miopi per accorgersi di non essere intoccabili e che, in realtà, si è tutti sulla stessa barca ed è solo questione di tempo prima di finire schiacciati anche loro. Una critica forte allo spezzettamento dei lavoratori, più interessati a difendere il proprio orticello che a fare fronte comune, come convinti che, se se ne stanno buoni e zitti in un angolo, forse se la prenderanno solo con gli altri. Ma Evangelisti non si ferma qui, perché sceglie così accuratamente il periodo storico in cui ambientare il libro, che spesso le pagine sembrano il quotidiano preso stamattina in edicola. La crisi, la mancanza di lavoro, il debito pubblico alle stelle, tutto uguale ieri come oggi. Così come uguali sembrano essere le riforme, sbagliate, messe in campo: tasse sempre più alte che vanno a colpire i ceti meno abbienti, i lavoratori, i dipendenti; maggiore precarizzazione per creare, ufficiosamente, più posti di lavoro; tagli delle tasse ai ricchi, con l’illusione che questo li spinga ad assumere di più. Il risultato, oggi come allora, è lo stesso: un progressivo allargamento della forbice tra poveri e ricchi, con i primi sempre più poveri e i secondi sempre più ricchi, un aumento esponenziale della disoccupazione, una crisi che non sembra avere fine o soluzione e un debito pubblico per nulla sotto controllo.
Quello che manca, oggi, è un movimento che cerchi di radunare e accogliere tutte queste anime così diverse, per fare fronte comune e proporre soluzioni diverse alla crisi. Nel libro grande importanza viene ricoperta dal neo-nato partito 
socialista che, in varie incarnazioni, a quel tempo muoveva i suoi primi passi e, per certi versi, cercava ancora una sua vera e propria identità, tra le spinte dei repubblicani da una parte e degli anarchici dall’altra. Oggi, e in realtà già allora, come ci racconta il libro, non abbiamo nulla di simile. Mille mila partiti, movimenti e rappresentanze, tutti che si muovono da soli, in una sterile guerra tra poveri, e non riescono ad avere una visione d’insieme. È indubbiamente anche questa una delle maggiori critiche presenti nel libro, oltre a quelle rivolte al sistema.
Per concludere “Il Sole dell’Avvenire” è uno dei libri più belli, toccanti ed istruttivi scritti da Valerio Evangelisti. Se siete suoi fan dovete leggerlo. Se non avete mai letto nulla di suo, cominciate pure da questo e vi innamorerete di questi personaggi e di questa storia. I due romanzi “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato” sappiamo che sono stati adottati, in Messico, come libri di testo per raccontare la storia del loro paese. Sarebbe bellissimo se simile destino avesse anche la trilogia de “Il Sole dell’Avvenire” in Italia. Forse, per una volta, gli studenti italiani si appassionerebbero alle letture scolastiche, soprattutto unirebbero l’utile al dilettevole imparando qualcosa d’importante sulla nostra storia e, perché no, imparerebbero anche un po’ di più a pensare con la loro testa.

martedì 18 marzo 2014

True Detective


HBO, si sa, è sinonimo di qualità. I titoli sfornati negli ultimi anni sono uno meglio dell’altro e hanno contribuito a spedire l’emittente americana direttamente nell’Olimpo delle reti preferite dai fan di serie-tv. I motivi son tanti e al contempo semplici: storie interessanti, scritte bene, recitate anche meglio, scenografie, costumi e regia paragonabili ai film di Hollywood, nessuna remora a mostrare nudi, sesso e violenza là dove ce n’è bisogno (e a volte anche dove non ce n’è).

True Detective - Stagione 1
Uno degli ultimi titoli nati è proprio True Detective. Una serie-tv antologica, nel senso che ogni stagione sarà dedicata a un caso diverso, con nuovi attori, nuovi personaggi, nuove ambientazioni. Non abbiamo problemi, quindi, a parlare di questo titolo senza aspettare le prossime stagioni, se ci saranno, perché tutto nasce e finisce qui.
La serie è prodotta, tra gli altri, anche da Matthew McConaughey e Woody Harrelson che interpretano, rispettivamente, Rust “Rusty” Cohle e Martin “Marty” Hart, la coppia di detective protagonista di questa stagione. Chiaro, dunque, l’interesse da parte dei due attori nei confronti del plot, tanto da esporsi in prima persona mettendoci i soldi.

Fin dalla prima puntata è subito chiaro perché McConaughey e Harrelson credessero tanto in questo titolo. La serie funziona alla grande: lo script riesce a incuriosire e a calamitare l’attenzione del telespettatore.
La storia si dipana su piani temporali differenti eppure paralleli. Diversi sono gli anni importanti in cui succedono le cose. Uno è il 2013, Cohle e Hart non sono più in polizia, sono stati convocati per porgli alcune domande su un loro vecchio caso risalente al 1995. L’ambientazione è la Lousiana, quindi non sorprende che ufficialmente i rapporti di quel caso siano andati distrutti a causa dell’uragano Katrina, perciò due nuovi detective vogliono porgli domande su ciò che c’era scritto in quei fascicoli.
Comincia, dunque, il racconto di quei fatti, e l’azione si sposta nel 1995 per mostrarci in diretta ciò che avviene. Un omicidio, apparentemente rituale, quale mai si era visto da quelle parti. Gli indizi sono tanti, ma sembrano non portare da nessuna parte.
Cohle e Hart, ai tempi, erano colleghi, anche se il loro rapporto appare un po’ singolare e, a tratti, burrascoso. Cohle è strano, chiuso in sé stesso, fa discorsi che Hart fatica a capire sul significato dell’esistenza o, meglio, il suo non significato. Hart, d’altra parte, è un personaggio più terra-terra, legato alla sua famiglia, innamorato di sua moglie e delle sue figlie, ma incapace di tener allacciati i pantaloni appena una ragazza si mostra interessata. Non potrebbe esserci una coppia più diversa e, forse proprio per questo, sullo schermo funziona. Naturalmente il merito è soprattutto di McConaughey e Harrelson, perfettamente calati nella parte. Se 
ce lo si poteva abbastanza aspettare per quanto riguarda Harrelson, dato che Hart è un personaggio nelle sue corde, tutto sommato piuttosto simile ad altri che ha già interpretato in passato, McConaughey è strabiliante e viene quasi spontaneo chiedersi dove abbia, di punto in bianco, imparato a recitare così, dopo che per anni è stato un attore decisamente monodimensionale (dopo aver visto la serie, però, non meraviglia assolutamente che abbia vinto l'Oscar come Miglior Attore Protagonista).
La coppia, in ogni caso, non funziona solo per il pubblico, ma funziona anche nel lavorare ai casi, con due atteggiamenti e modi di procedere diametralmente opposti, che fan sì che ciascuno osservi ogni cosa da punti di vista nuovi e per lui inusuali, portando poi a dei risultati concreti.
Ben presto, nonostante le pressioni politiche e religiose che premono sulle loro spalle, Cohle e Hart cominciano a trovare sempre più indizi riguardo a quella che sembrerebbe essere una sorta di culto o di setta legata al Re in Giallo. Alcuni simboli si ripetono, come la spirale, mentre alcuni nomi si fanno sempre più frequenti in bocca agli interrogati, come Carcosa.

A questo punto lo spettatore che sia anche lettore appassionato, non può non notare tutte le citazioni trasversali all’opera più famosa di Robert W. Chambers, l’antologia di racconti intitolata proprio “Il Re in Giallo”. Un libro che ispirò anche il più celebre Lovecraft nella creazione di molti dei suoi miti e, soprattutto, del più famoso pseudo-biblia di tutti i tempi: il Necronomicon. Perché anche nell’opera di Chambers, in realtà, Il Re in Giallo è il titolo di una rappresentazione teatrale, di un libello, fantastico, capace di portare alla follia chi ne entrasse in possesso e lo leggesse. Chambers ne riporta, in alcuni momenti, dei frammenti, stralci poetici, puntualmente citati e riportati alla lettere nella serie-tv.
Il mistero si infittisce e lo spettatore vede salire sempre più le proprie aspettative.
Il caso sembra giungere a una svolta con la morte di due sospetti. Forse è tutto finito, i colpevoli sono stati uccisi, giustizia è stata fatta. Eppure qualcosa non torna. Forse non son stati loro o, forse, non son stati solo loro. Forse, anzi, quasi certamente, c’è dietro qualcosa d’altro. Qualcun altro. Gente abbastanza potente e abbastanza in alto da aver messo a tacere le sparizioni di decine di donne e bambini nel corso degli anni per continuare le proprie pratiche indisturbati. Qualcuno che ha creato un vero e proprio culto attorno al Re in Giallo.
Attraverso i piani temporali, che a un certo punto si arricchiscono anche del 2002, l’indagine prosegue tra ostacoli, strade a fondo chiuso e nuovi indizi.

Nella seconda metà della stagione, lo spettatore più avvezzo alle serie-tv non può non notare qualche somiglianza con un altro titolo di qualche anno fa, di origine inglese. Mi riferisco alla miniserie in tre film “Red Riding” (di cui avevamo parlato qui).
I punti di contatto sembrano evidenti.
Una regione pesantemente intaccata dalla miseria, dalla povertà e dall’ignoranza. Un gruppo di persone potenti, in grado di fare tutto ciò che vogliono. Bambini scomparsi nell’arco di decine di anni, le cui sparizioni vengono passate sotto silenzio dalle autorità o per le quali vengono trovati capri espiatori di comodo.
Fin qui il plot sembrerebbe essere simile, ma non necessariamente debitore l’uno verso l’altro. Ciò che cambia tutto è l’inserimento di un personaggio: un travestito con informazioni importanti per Cohle, che gli rivela di esser stato presente a certi riti (molto simile al character interpretato da Robert Sheehan in “Red Riding”) e un video che viene ritrovato. In esso possiamo assistere proprio a un ritrovo del culto del Re in Giallo, a cui partecipano, con ogni probabilità, le importanti personalità di cui si diceva. Nessun modo per identificarli, però, perché indossano tutti una maschera, la maschera di un animale. Diverso per ognuno. Proprio come in “Red Riding” i membri del gruppo erano soliti chiamarsi tra loro con nomi di animali.
Il senso di dejà-vù è forte.
Eppure, fino a questo punto, la serie è scritta così bene che si è ben disposti a passarci sopra per andare avanti, per vedere dove si vuole andare a parare.

Purtroppo, però, il finale non appare all’altezza del resto della stagione e delle aspettative.
Nell’ultimo episodio vi è una svolta nelle indagini con un escamotage un po’ tirato per i capelli, ma che, tutto sommato, ci può anche stare. I nostri detective arrivano a colui che sembrerebbe poter essere l’esecutore materiale di molti degli omicidi, quantomeno una sorta di boia o tuttofare che sceglieva e rapiva i bambini per la setta. Nonché il custode di un luogo oscuro, sperduto tra le paludi, che arriviamo a identificare con la Carcosa di cui tanti testimoni avevano parlato.
Il confronto è brutale e i nostri protagonisti rischiano di lasciarci la pelle. Ma il cattivo viene ucciso e loro si salvano.
Fine.

Siamo persuasi che questa non fosse, come dicono in molti, una serie basata tanto sul plot, quanto sui personaggi. Ma un finale simile risulta alquanto indigesto. I protagonisti ritornano a mettere insieme la coppia (scoppiata nel 2002) dopo undici anni solo perché sono convinti che la setta che c’è dietro a quelle sparizioni e a quegli omicidi vada fermata. Una setta che, ormai ne sono certi, coinvolge persone altolocate. Tanto che prima di recarsi all’appuntamento col destino, fanno un gran numero di copie di tutte le prove che hanno, da spedire a giornali, polizia, FBI, tv locali e nazionali.
Eppure, dopo aver eliminato il mero esecutore e aver liquidato la faccenda della setta con una frettolosa frase pronunciata al tg “le autorità hanno messo a tacere le voci sul coinvolgimento di persone importanti”, per loro sembra che la vicenda sia finita. Sinceramente ci sembra un po’ poco. Non pretendevamo che Cohle e Hart riuscissero a scoperchiare tutto il marcio: il finale con i cattivi che rimangono impuniti ci può anche stare, nel momento in cui si vuole fare una serie che punti un po’ più al realismo. Quello che non torna è l’atteggiamento dei personaggi, che sembrano aver subito un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto da dimenticare completamente tutto ciò per cui stavano combattendo, lasciandoselo dietro le spalle quasi non fosse più importante.
Un simile twist avrebbe avuto più senso se colui che avevano fatto fuori si fosse rivelato, in qualche modo, una figura di spicco della setta. Una sorta di santone, magari una specie di oracolo a cui tante persone potenti si rivolgevano, nonostante fosse, per usare le loro stesse parole, “un bifolco”. Difficile, infatti, credere che potesse avere un ascendente di tipo intellettuale o carismatico, da qui l’idea che, invece, magari l’essere portato per delle crisi epilettiche, potesse essere da loro interpretato come qualcosa di metafisico.
Purtroppo non vi sono tracce di alcuna sottotrama di questo tipo.

E se pure si tratta di una serie che punta l’attenzione sui personaggi, sulla loro evoluzione, sul rapporto che vi è tra loro, in cui la trama generale, l’indagine, passa in secondo piano, al punto da poter perfino esser messa da parte a un certo punto, il finale risulta ugualmente deludente. È deludente proprio perché la trama generale rimane aperta, il caso non è davvero chiuso, tutt’altro, quindi i personaggi non possono comportarsi come se lo fosse e, finalmente, andare avanti con la loro vita. L’ossessione di Cohle per questi omicidi è ancora lì, perché gli assassini sono ancora là fuori, eppure gli sceneggiatori, nelle ultime immagini, ci mostrano un Rusty finalmente in pace con sé stesso e con i suoi demoni interiori. Un uomo che, convinto di aver fatto giustizia, finalmente riesce a guardare avanti, a ciò che resta della sua vita, invece che continuamente indietro.
Il finale, dunque, risulta essere alquanto incoerente con il resto della serie e perfino nei confronti dei personaggi, fino a quel momento gestiti benissimo. L’impressione è che sia un po’ scappata di mano agli sceneggiatori la gestione dei tempi, di cosa mostrare poco per volta e si sia dovuti giungere frettolosamente a una conclusione con l’ultima puntata. Forse, con un altro paio di episodi ancora a disposizione, più tempo e spazio per gestire tutte le sottotrame, ora staremmo parlando di un capolavoro a tutto tondo.
Così, invece, rimane una serie di qualità superiore, ottimamente gestita fino all’ultima puntata, ma con un finale decisamente non all’altezza.

giovedì 6 marzo 2014

Grant Morrison & Dave McKean - "Batman: Arkham Asylum - Absolute Edition"

Titolo: “Batman: Arkham Asylum – Absolute Edition”
Autore: Grant Morrison e Dave McKean
Edizione: RW Lion
Anno: 2012

Grant Morrison è considerato uno degli autori di fumetti più brillanti degli ultimi anni, salito alla ribalta del mondo dei comics grazie alle sue pregevolissime run di alcuni dei maggiori personaggi della DC, nonché la sua interpretazione di Animal Man e diverse testate originali come “The Invisibles”.
Prima, però, che diventasse una sorta di superstar del fumetto supereroistico, era un autore inglese quasi anonimo. La svolta nella sua carriera è arrivata proprio grazie ad “Arkham Asylum”, una storia che presentava il personaggio di Batman in maniera del tutto innovativa e che, a distanza di anni, riesce a conservare tutte le proprie qualità.
Ai tempi, ovviamente, Morrison non sapeva ancora che questa storia gli avrebbe aperto le porte del gotha del fumetto americano. Per lui era un trampolino di lancio che andava sfruttato al mille per cento per ottenere quanta più spinta possibile per arrivare in alto. Così fece, andando a confezionare una vicenda e una sceneggiatura così complessa e infarcita di simbolismi, metafore, rimandi incrociati, da essere considerata un capolavoro ancora oggi.
Non meraviglia, quindi, che “Arkham Asylum” abbia avuto un successo esagerato e che Morrison sia stato immediatamente portato in palmo di mano attraverso l’Atlantico. Semmai meraviglia che un’opera così complessa, così stratificata e piena di livelli di lettura diversi, abbia fatto così tanta presa anche sulla massa, sul pubblico mainstream. Certamente i disegni di McKean (per quanto il termine “disegni” sia estremamente limitante nel caso dell’artista inglese) hanno aiutato, ammantando tutta l’opera di ulteriore pregio, anche visivo, rendendola in grado di spiccare in maniera nettissima tra la massa.
Eppure rimane il sospetto che i lettori americani che ebbero il privilegio di leggere per primi queste pagine, non abbiano percepito e compreso appieno la profondità di quest’opera. Il motivo è semplice: quei primi albi sequenziali presentavano solo ed esclusivamente i disegni, le tavole, i dialoghi della storia, senza alcun aiuto esterno, nessun redazionale che spiegasse, che svelasse tutti i meccanismi e i segreti celati in ogni pagina.
Più che il grande formato, capace di rendere al meglio l’opera di McKean, ciò che rende preziosa un’edizione come questa è ciò che viene dopo il fumetto vero e proprio. La sceneggiatura originale di Morrison, con tutti i suoi appunti, i suoi commenti, i suoi suggerimenti. Con tutti gli incisi in cui spiega esattamente cosa vuole comunicare e perché, cosa significa ogni singolo oggetto sparso tra le pagine, quale il suo valore metafisico, quale il rimando alle carte dei tarocchi o a qualche teoria filosofica o psicologica.
E se già i testi originali di Morrison non bastassero, ecco dei commenti posticci, in cui l’autore stesso disamina e illustra più approfonditamente ciò che lo ha portato a prendere certe decisioni e a inserire certe scene. Insomma, un vero e proprio tuffo in “Arkham Asylum”: fino in fondo, fino a toccarne la vera essenza illuminandone ogni più angusto e recondito particolare, per poterne riemergere meravigliati e ammirati.
Se volete leggere un’opera del tutto fuori dal coro sull’uomo pipistrello, questo è pane per i vostri denti. E se volete leggere “Arkham Asylum”, la cosa migliore è proprio farlo avendo tra le mani un’edizione come questa, che possa permettere di apprezzare il fumetto al meglio e in tutto e per tutto.

martedì 18 febbraio 2014

Art Spiegelman - "MAUS"

Autore: Art Spiegelman
Titolo: “MAUS”
Edizione: Einaudi – Stile Libero
Anno: 2010

“MAUS” di Art Spiegelman è un’opera che ingenera sentimenti contrapposti nel lettore. Mentre lo si ha tra le mani, infatti, non si riesce a trattenersi dal chiedersi: “perché non l’ho letto prima?”, ma al contempo ci si sente fortunati per le emozioni che suscita poterlo leggere per la prima volta. Questo succede perché “MAUS” è un’opera potente, che scava nel cuore delle persone suscitando sensazioni e sentimenti forti con cui, in certi momenti, è difficile scendere a patti.
L’opera sembra partire in sordina, con l’escamotage meta-letterario di farci vedere l’autore stesso mentre comincia a pensare di scrivere e disegnare questo libro. Ci mostra la semplicità dei rapporti umani, in particolare quelli tra Art Spiegelman e suo padre Vladek, e il tema centrale dell’olocausto appare secondario, quasi solo un argomento di conversazione tra i due. Poi, poco a poco, però, i racconti di Vladek assumono maggiore spazio ed è proprio su questo equilibrio tra presente e passato che si regge tutto il libro. Sarebbe, forse, stato semplice per l’autore creare una contrapposizione, una dicotomia, tra questi due periodi storici, contraddistinguendoli anche per il tono della narrazione, l’uno più serio e drammatico, l’altro più leggero e brioso. Una scelta che avrebbe potuto dare una sorta di tregua al lettore che, altrimenti, avrebbe rischiato di rimanere schiacciato dalle emozioni. Invece ciò che troviamo è un ritmo narrativo più complesso, con difficoltà sia nel presente che nel passato, ma, allo stesso modo, momenti più rilassati, quasi divertenti, sia in un periodo che nell’altro.
Ciò che colpisce, soprattutto, è la spietatezza dell’autore. Spiegelman non fa sconti a nessuno. “MAUS” non è un’opera buonista, non è neanche un’opera di parte. Non soffre del complesso per cui, se si parla dell’olocausto, allora tutti gli ebrei debbono essere automaticamente buoni, generosi, vittime innocenti di un orrore più grande di loro. “MAUS” non scade mai nell’apologia di un popolo o nel tentativo di addolcire la pillola, ma si limita ad essere cronaca fedele, fredda e brutale, di una serie di fatti. Così sono frequenti i casi di violenza, di soprusi, compiuti da ebrei verso altri ebrei, semplicemente perché si tratta di una vera e propria guerra per la sopravvivenza, in cui spesso vince solo il più spietato. Leggendo viene normale provare sentimenti di odio verso coloro che compiono truffe ai danni di loro pari o coloro che, nei campi di concentramento, sono perfino più cattivi degli stessi soldati tedeschi. Sono disperati tentativi di sopravvivere, il disgraziato che se la prende e si approfitta di chi è più disgraziato di lui. Lo stesso protagonista di tutto il racconto, Vladek, in più occasioni si ritrova a venir preso per la gola in alcuni scambi per poi, altre volte, comportarsi lui stesso come uno strozzino. Nel finale, addirittura, dimostra di essere razzista nei confronti delle persone di colore, come se tutto ciò che ha passato non gli abbia insegnato nulla, visto che considera i “neri” dei diversi, non degli esseri umani uguali a lui.
Spiegelman, in tutto questo, non dà un giudizio morale. Non punta il dito verso coloro che, invece di dividere il poco che avevano con tutti, per cercare di tirare avanti tutti insieme, se lo sono tenuto per sé, nel tentativo di garantire la salvezza almeno personale e dei propri cari. Si limita a raccontare come uno dei più grandi orrori che la storia umana ricordi sia in grado di cambiare le persone. Di primo acchito viene normale considerare dei mostri coloro che vediamo comportarsi male (secondo un sistema di valori che non ha dovuto fare i conti con la situazione in cui si sono trovate a vivere quelle persone), ma, riflettendoci attentamente, la nostra condanna dovrebbe andare verso coloro che hanno fatto sì che quelle persone fossero costrette ad agire in quel modo.
Quando si gira l’ultima pagina di questo libro si sente che ha lasciato un segno dentro di noi. Si rimane un po’ smarriti, come se non si riconoscesse più il mondo che ci circonda. Quasi si vorrebbe continuare la lettura, per quanto dolorosa fosse, per quanto lasciasse nel nostro cuore un segno come un marchio a fuoco. Un segno che fa male, profondo e che brucia, ma un segno che sentiamo può aiutarci a crescere, a migliorare, a diventare persone migliori.

venerdì 7 febbraio 2014

Andre Agassi - "Open"

Autore: Andre Agassi
Titolo: "Open"
Edizione: Einaudi Stile Libero
Anno: 2011

Devo ammettere di non essere un grande fan delle biografie e delle autobiografie. Soprattutto non sono un grande fan di quelle dedicate agli sportivi, nonostante nell’ultimo periodo sembrino spopolare.
È, dunque, con più di qualche dubbio e pregiudizio che ho preso in mano “Open” di Andre Agassi, nonostante i tanti bei commenti che ho letto in giro (anche da parte di amici) e nonostante sapessi che il ghost-writer dietro a questo libro fosse tutt’altro che uno sprovveduto, avendo vinto il premio Pulitzer.
Ma cosa era a preoccuparmi?
Principalmente di trovarmi di fronte a una noiosa e sterile cronistoria delle fasi salienti della vita e della carriera dell’ennesimo uomo di sport.
Non potevo sbagliarmi di più.
Il merito, probabilmente, non è solo di J. R. Moehringer ma anche, e soprattutto, del protagonista del libro: Agassi, infatti, non è un uomo di sport come tanti altri.
Dopo averlo terminato non mi son dunque sorpreso che avesse avuto il successo che ha avuto, che sia diventato un piccolo fenomeno editoriale, sia in Italia che all’estero. Gli elementi che fanno funzionare un libro ci sono tutti e sono gli stessi dei grandi best-sellers di narrativa, solo che questa volta sono veri.
Il protagonista, fin da piccolo, è un prescelto. Un prescelto dal padre, che ha deciso dovrà diventare, che lo voglia o no, il tennista numero uno al mondo. Dunque via con gli allenamenti fin dalla più tenera età. Ore e ore a palleggiare contro un mostro meccanico spara-palle soprannominato “il drago”. Niente scuola, è solo tempo perso e rubato agli allenamenti. E poi partite, partite e partite. Contro ragazzini della stessa età, più grandi e perfino adulti, contro avversari sempre più bravi, per poter migliorare.
Un prescelto, dunque, come nella migliore tradizione della narrativa fantasy, ma un prescelto ancora acerbo, che, in realtà, ancora non sa neanche chi è. Con tanti dubbi, domande e paure. Una sola certezza: l’odio per il tennis.
“Open”, dunque, diviene non solo la narrazione degli eventi e dei match della vita di Agassi, diviene un romanzo di formazione, di crescita. La crescita del protagonista, certamente, con la sua ricerca di sé stesso attraverso mille e più tentativi (di pettinatura, estetici, ma anche matrimoniali), il più delle volte andati a vuoto. Ma è leggendo quelle pagine, imparando ad apprezzare la persona dietro lo sportivo, con le sue fragilità, le sue incongruenze (può, colui che aveva le convulsioni all’idea di andare a scuola, diventare il filantropo che sogna di inondare di scuole tutta l’america?), che anche il lettore cresce e, forse, impara anche qualcosa su di sé.
Pur apparendo il classico “libro del momento” (quindi destinato a sparire appena cambia la moda), pur sembrando l’ennesima biografia di uno sportivo con il solo scopo di rubare spazio sulla mensola della libreria, “Open” è tutt’altro. È un libro che merita certamente una lettura: primo perché è scritto veramente bene (a questo riguardo non fidatevi di me, fidatevi del curriculum vitae del signor Moehringer che l’ha scritto), secondo perché riesce a lasciare qualcosa.
Oggigiorno sembra diventato raro trovare romanzi o volumi in grado di farlo. Anche tra i cosiddetti mattoni, quei libri pesantissimi che promettono di avere le risposte alle domande dell’esistenza, alla vita, l’universo e tutto quanto, è raro riuscire a trovarne uno che sia in grado di lasciare davvero il segno. Perfino tra quelle storie tragicissime che dovrebbero insegnare qualcosa al lettore. Il più delle volte il segno finiscono per lasciarlo solo nel portafogli e sul calendario, per il tanto tempo speso (o sprecato) per riuscire ad arrivarci faticosamente in fondo.
“Open”, invece, lascia il segno, e potreste anche trovare molto divertente il modo in cui lo fa.

mercoledì 22 gennaio 2014

Jonathan Carroll - "The Ghost in Love"

Autore: Jonathan Carroll
Titolo: "The Ghost in Love - Il Fantasma che si Innamorò"
Edizione: La Corte Editore
Anno: 2013

Carroll è uno scrittore straordinario. Apprezzato, amato, adorato in mezzo mondo. Negli Stati Uniti le prime edizioni di molti dei suoi libri sono vendute a peso d'oro.
In Italia?
Purtroppo, in Italia a momenti neanche ci accorgiamo della sua esistenza. I diritti dei suoi libri sono passati, fin'ora, attraverso almeno 4 case editrici diverse, senza trovare mai stabilità e continuità. Spesso, inoltre, non son mai stati ristampati o non hanno goduto di nuove edizioni; alcuni titoli, quindi, risultano pressoché introvabili. Le stesse case editrici che si son susseguite fin qui han spesso pescato un po' a caso, pubblicando solo alcuni volumi (mai in ordine cronologico) di certi cicli e lasciando diversi buchi qui e là nella sua bibliografia (emblematico il caso del "Sestetto delle Preghiere Esaudite", di cui son stati editati in italiano, nell'ordine: il terzo, il sesto, il primo e infine il quinto, dimenticando per strada il secondo e il quarto).
Insomma, non solo i lettori italiani non sembrano tenerlo in grande considerazione, ma neanche le case editrici l'hanno certo trattato con i guanti bianchi.
Ultimi, in ordine di tempo, ad accostarsi a Carroll, son quelli de La Corte Editore. Il primo nato sotto l'egida di questa casa editrice è proprio questo "The Ghost in Love", attualmente l'ultimo romanzo di Carroll (anche se risalente, ormai, al 2008 e da noi giunto a 5 anni di distanza).
Come spesso accade nei libri dello scrittore trapiantato a Vienna, i titoli son parzialmente fuorvianti. Protagonista di questo romanzo non è un fantasma innamorato, per quanto sia uno dei personaggi principali, né si tratta di una storia d'amore. E', invece, la storia di Ben Gould e di come sia morto, ma non sia morto. No, non avete letto male, effettivamente Ben avrebbe dovuto morire, in un certo modo e in un certo momento, almeno stando alla burocrazia ultraterrena che gestisce tutto quanto. Eppure non è morto... e questo è l'inizio di tutto.
Non proseguo troppo nel riassumere la storia perché, come tutte le trame di Carroll, è piena di colpi di scena e merita di essere scoperta da soli.
Mi soffermo, invece, sui contenuti del libro. Quello che appare come un "normale" romanzo fantastico, che potremmo quasi inquadrare nell'ambito del fantasy metropolitano, in realtà è molto di più. Proprio in questo sta la bravura di Carroll: nel riuscire a creare sempre intrecci, vicende, situazioni, capaci di calamitare l'attenzione del lettore, quasi fosse un avvincente blockbuster, ma con una profondità non comune.
Tutto il libro, infatti, ruota attorno a un concetto principale, quello del sé. L'accettazione di sé stessi, il fatto di cambiare quando si cresce, cosa si diventa e cosa ci si lascia alle spalle. Il modo in cui Carroll riesce a farci riflettere su questi punti è estremamente originale e, nonostante in diversi momenti del libro torni su temi apparentemente già affrontati e sviscerati, lo fa in maniera sempre nuova, andando ad aggiungere nuovi tasselli a un affresco sempre più grande e complesso.
Una volta terminata la lettura, volenti o nolenti, ci si ritrova arricchiti e accresciuti. Una lettura consigliata, perché speciale (come spesso sono i libri di Carroll) e perché non può lasciare indifferenti. Romanzi come questo non sono tanti, per questo è un delitto lasciarseli sfuggire. Inoltre, nonostante sia profondo e complesso, si legge tutto d'un fiato, come una avventura che ti lascia senza fiato e ti costringe a girare una pagina dopo l'altra di corsa.
Quindi, che si può volere di più?