Autore: Jonathan Carroll
Titolo: "The Ghost in Love - Il Fantasma che si Innamorò"
Edizione: La Corte Editore
Anno: 2013
Carroll è uno scrittore straordinario. Apprezzato, amato, adorato in
mezzo mondo. Negli Stati Uniti le prime edizioni di molti dei suoi libri
sono vendute a peso d'oro.
In Italia?
Purtroppo, in Italia a
momenti neanche ci accorgiamo della sua esistenza. I diritti dei suoi libri sono
passati, fin'ora, attraverso almeno 4 case editrici diverse, senza trovare mai stabilità e continuità. Spesso, inoltre, non
son mai stati ristampati o non hanno goduto di nuove edizioni; alcuni
titoli, quindi, risultano pressoché introvabili. Le stesse case editrici che si son susseguite fin qui han
spesso pescato un po' a caso, pubblicando solo alcuni volumi (mai in
ordine cronologico) di certi cicli e lasciando diversi buchi qui e là
nella sua bibliografia (emblematico il caso del "Sestetto delle Preghiere Esaudite", di cui son stati editati in italiano, nell'ordine: il terzo, il sesto, il primo e infine il quinto, dimenticando per strada il secondo e il quarto).
Insomma, non solo i lettori italiani non
sembrano tenerlo in grande considerazione, ma neanche le case editrici l'hanno certo trattato con i guanti bianchi.
Ultimi, in ordine di
tempo, ad accostarsi a Carroll, son quelli de La Corte Editore. Il
primo nato sotto l'egida di questa casa editrice è proprio questo "The Ghost
in Love", attualmente l'ultimo romanzo di Carroll (anche se risalente, ormai, al 2008 e
da noi giunto a 5 anni di distanza).
Come spesso accade nei libri dello
scrittore trapiantato a Vienna, i titoli son parzialmente fuorvianti.
Protagonista di questo romanzo non è un fantasma innamorato, per quanto
sia uno dei personaggi principali, né si tratta di una storia d'amore.
E', invece, la storia di Ben Gould e di come sia morto, ma non sia
morto. No, non avete letto male, effettivamente Ben avrebbe dovuto
morire, in un certo modo e in un certo momento, almeno stando alla
burocrazia ultraterrena che gestisce tutto quanto. Eppure non è morto...
e questo è l'inizio di tutto.
Non proseguo troppo nel riassumere
la storia perché, come tutte le trame di Carroll, è piena di colpi di
scena e merita di essere scoperta da soli.
Mi soffermo, invece, sui contenuti del libro. Quello che appare come un "normale"
romanzo fantastico, che potremmo quasi inquadrare nell'ambito del
fantasy metropolitano, in realtà è molto di più. Proprio in questo sta
la bravura di Carroll: nel riuscire a creare sempre intrecci, vicende,
situazioni, capaci di calamitare l'attenzione del lettore, quasi fosse
un avvincente blockbuster, ma con una profondità non comune.
Tutto il libro, infatti, ruota attorno a un concetto principale, quello del sé. L'accettazione di sé stessi, il fatto di cambiare quando si cresce, cosa
si diventa e cosa ci si lascia alle spalle. Il modo in cui Carroll
riesce a farci riflettere su questi punti è estremamente originale e,
nonostante in diversi momenti del libro torni su temi apparentemente già affrontati e sviscerati, lo
fa in maniera sempre nuova, andando ad aggiungere nuovi tasselli a un
affresco sempre più grande e complesso.
Una volta terminata la
lettura, volenti o nolenti, ci si ritrova arricchiti e accresciuti. Una
lettura consigliata, perché speciale (come spesso sono i libri di
Carroll) e perché non può lasciare indifferenti. Romanzi come questo non
sono tanti, per questo è un delitto lasciarseli sfuggire. Inoltre,
nonostante sia profondo e complesso, si legge tutto d'un fiato, come una
avventura che ti lascia senza fiato e ti costringe a girare una pagina
dopo l'altra di corsa.
Quindi, che si può volere di più?
recensioni a mente libera di libri, fumetti, manga, graphic novel e, perchè no, magari anche qualche film e telefilm...
Avvertenze
- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -
mercoledì 22 gennaio 2014
mercoledì 25 dicembre 2013
Neil Gaiman - "Sandman Omnibus Vol. 7 - Morte"
Autore: Neil Gaiman
Titolo: "Sandman Omnibus Vol. 7 - Morte"
Edizione: RW Lion
Anno: 2013
Con il ciclo di storie intitolato "The Wake" (in italiano "La Veglia", ma in inglese si presta a più interpretazioni), contenuto in questo settimo volume, si conclude la serie regolare di Sandman. Si tratta di una cavalcata lunga ben 75 numeri, ma capace di regalare momenti e storie quali nessun fumetto prima (e forse neanche dopo).
Difficile riuscire ad esprimere le emozioni che suscitano le ultime pagine, anche grazie al suo rivolgersi direttamente al lettore. Quel misto di malinconia e perdita, ma anche il fortissimo sentimento di nostalgia che già si prova quando ancora non si è del tutto detto addio ai personaggi.
Come già nei volumi precedenti, una parte fondamentale la svolgono le pagine di approfondimento. In particolare la bellissima intervista in cui Gaiman disvela, analizza, spiega i dietro le quinte di quest'ultimo ciclo di storie. I personaggi, le situazioni, i simboli vengono approfonditi. I riferimenti incrociati resi palesi anche a chi, non anglosassone, può non averli colti tutti o nella loro interezza.
Se già il fumetto, in sé e per sé, a una prima e più superficiale lettura, era stato capace di affascinare e commuovere, dopo la chiacchierata con Neil diviene (ancor più) capace di stupire e meravigliare.
Gaiman ripete più volte come, all'inizio della sua avventura con Sandman, tutto fosse più semplice. Tutto era facile, perché inventare cose nuove era una cosa automatica, ma dopo la metà era diventato sempre più difficile non ripetersi. I tempi di scrittura si allungavano e tutto diventava più macchinoso e meno naturale. Bisogna dire che leggendo "Le Eumenidi" e "La Veglia", però, non sembra assolutamente. Al contrario l'impressione è che sia proprio verso la fine che l'autore abbia toccato l'apice e abbia chiuso la serie proprio nel suo momento più alto.
Conclusione migliore credo non potesse esserci.
Sandman è a buon diritto annoverato come un capolavoro a tutto tondo. Una di quelle opere capaci di emanciparsi dal media sul quale e per il quale era stata pensata e realizzata per elevarsi a pura letteratura di altissimo livello. Una lettura consigliata e, perché no, obbligatoria, per tutti coloro che vogliano farsi una idea di cosa può essere e può dare un "fumetto". Ma anche un vero e proprio masterpiece della letteratura degli ultimi decenni, al di là di ogni barriera e convenzione.
Titolo: "Sandman Omnibus Vol. 7 - Morte"
Edizione: RW Lion
Anno: 2013
Con il ciclo di storie intitolato "The Wake" (in italiano "La Veglia", ma in inglese si presta a più interpretazioni), contenuto in questo settimo volume, si conclude la serie regolare di Sandman. Si tratta di una cavalcata lunga ben 75 numeri, ma capace di regalare momenti e storie quali nessun fumetto prima (e forse neanche dopo).
Difficile riuscire ad esprimere le emozioni che suscitano le ultime pagine, anche grazie al suo rivolgersi direttamente al lettore. Quel misto di malinconia e perdita, ma anche il fortissimo sentimento di nostalgia che già si prova quando ancora non si è del tutto detto addio ai personaggi.
Come già nei volumi precedenti, una parte fondamentale la svolgono le pagine di approfondimento. In particolare la bellissima intervista in cui Gaiman disvela, analizza, spiega i dietro le quinte di quest'ultimo ciclo di storie. I personaggi, le situazioni, i simboli vengono approfonditi. I riferimenti incrociati resi palesi anche a chi, non anglosassone, può non averli colti tutti o nella loro interezza.
Se già il fumetto, in sé e per sé, a una prima e più superficiale lettura, era stato capace di affascinare e commuovere, dopo la chiacchierata con Neil diviene (ancor più) capace di stupire e meravigliare.
Gaiman ripete più volte come, all'inizio della sua avventura con Sandman, tutto fosse più semplice. Tutto era facile, perché inventare cose nuove era una cosa automatica, ma dopo la metà era diventato sempre più difficile non ripetersi. I tempi di scrittura si allungavano e tutto diventava più macchinoso e meno naturale. Bisogna dire che leggendo "Le Eumenidi" e "La Veglia", però, non sembra assolutamente. Al contrario l'impressione è che sia proprio verso la fine che l'autore abbia toccato l'apice e abbia chiuso la serie proprio nel suo momento più alto.
Conclusione migliore credo non potesse esserci.
Sandman è a buon diritto annoverato come un capolavoro a tutto tondo. Una di quelle opere capaci di emanciparsi dal media sul quale e per il quale era stata pensata e realizzata per elevarsi a pura letteratura di altissimo livello. Una lettura consigliata e, perché no, obbligatoria, per tutti coloro che vogliano farsi una idea di cosa può essere e può dare un "fumetto". Ma anche un vero e proprio masterpiece della letteratura degli ultimi decenni, al di là di ogni barriera e convenzione.
martedì 5 novembre 2013
Ursula K. LeGuin - "La Leggenda di Earthsea"
Autore: Ursula K. LeGuin
Titolo: "La Leggenda di Earthsea"
Edizione: Narrativa Nord
Anno: 2007
Il ciclo di Earthsea è considerato uno dei grandi capisaldi della letteratura fantasy di ogni tempo. L'autrice stessa, Ursula K. LeGuin, è un vero e proprio nome sacro per la letteratura fantastica, dal fantasy alla fantascienza, essendo riuscita a lasciare il segno in ogni genere in cui si sia cimentata.
Eppure, quando si inizia "Il Mago di Earthsea", primo libro del ciclo, la sensazione è che ci sia qualcosa che non va, che qualcuno si sia sbagliato, che non sia possibile che questa saga sia divenuta così famosa, che sia da tutti considerata un capolavoro. Al di là della lunghezza di ogni capitolo (tutti piuttosto corti, sotto alle duecento pagine l'uno), infatti, è proprio lo stile con cui le vicende di Sparviero (o Ged, a seconda che siate o meno suoi amici) sono narrate a lasciare un po' perplessi. I fatti si susseguono a un ritmo addirittura rutilante, non si ha quasi il tempo di fare la conoscenza di un personaggio, che questo è già parte del passato. Spesso, addirittura, si ha l'impressione che alcune cose vengano lasciate in sospeso, o quantomeno non vengano sufficientemente approfondite, come se l'autrice avesse fretta di raccontare tutto. Come se lo spazio fosse limitato, il tempo ristretto e bisognasse fare di necessità virtù nel far star più cose possibili nel romanzo.
Il risultato è un libro che scorre fin troppo, con tanti avvenimenti, ma, apparentemente, poco spessore.
Si tratta, però, di una sensazione fallace, destinata a cambiare poco a poco che si prosegue nella lettura dei volumi successivi della saga, ciascuno capace di aggiungere uno o più tasselli a un unico grande affresco. Bisogna, però, attendere solo l'ultimo libro, "I Venti di Earthsea", per riuscire ad apprezzare il disegno di questo mondo nella sua interezza.
Sia "Le Tombe di Atuan" che "La Spiaggia Più Lontana", infatti, sembrano romanzi quasi del tutto slegati da quelli che li hanno preceduti. Distanti anni come ambientazione e con situazioni che appaiono a sé stanti, presentano solo qualche lieve accenno agli avvenimenti già trascorsi e non sembrano risentirne più di tanto. Solo "L'Isola del Drago" sembra fin da subito legato a "La Spiaggia Più Lontana", quasi ne fosse un diretto seguito, anche se in realtà prende ben presto una sua strada indipendente, focalizzando inoltre l'attenzione su nuovi personaggi come protagonisti.
Benché l'approfondimento, pressoché assente nel primo, arrivi nei libri successivi, si continua a non avere del tutto la percezione di cosa renda questi libri un tale capolavoro. I difetti, qui e là, infatti, non sembrano mancare: l'approfondimento dei personaggi e della loro psicologia, infatti, a volte è perfino eccessiva, con lunghi soliloqui o interi capitoli quasi didascalici, al limite del noioso. L'unico che sembra presentare un buon equilibrio tra ritmo degli avvenimenti e costruzione dei personaggi è il quarto "L'Isola del Drago", gli altri soffrono di una eccessiva preponderanza dell'uno o dell'altro aspetto.
Certo, gli elementi di originalità non mancano, soprattutto se si pensa a quando i romanzi son stati scritti: la prevalenza delle acque, il fatto che la stragrande maggioranza dei personaggi siano di pelle nera o quantomeno molto scura (anche se tutte le traduzioni cinematografiche e televisive sembrano dimenticarlo o ignorarlo), i passaggi sul ruolo e la dignità della donna in "L'Isola del Drago", gli accenni neanche troppo velati all'omosessualità in "L'Isola Più Lontana", tutta la filosofia e i concetti su cui si basa la magia di quel mondo, etc. Tutto questo, però, inizialmente non sembra calato in un contesto che possa del tutto giustificare l'appellativo di capolavoro, quasi fossero buone idee slegate tra loro.
Tutto questo cambia nel momento in cui si va a leggere il romanzo conclusivo del ciclo: "I Venti di Earthsea". Non solo ci si rende conto che ogni libro precedente serviva solo a portarti un passo più vicino alla conclusione, quindi non si trattava di vicende scollegate tra loro. Non solo ci si rende conto che l'affresco realizzato dalla LeGuin è molto più complesso di come apparisse inizialmente, questo grazie ai rimandi incrociati, e inizialmente impossibili da cogliere, tra i capitoli della saga. Ma è come se, improvvisamente, tutti i pezzi di un puzzle, che componevano solo un caos inestricabile, in cui si potevano ravvedere solo alcuni, sparuti, assembramenti coerenti al loro interno, prendessero il proprio posto dipingendo un'unico schema, presente fin dall'inizio.
In questo, oltre che nel messaggio vero e proprio che traspare una volta colto schema di fondo e, in particolare, la filosofia del mondo di Earthsea, consiste la vera grandiosità di questa saga. Un ciclo che più che giustamente ricopre un ruolo fondamentale nella storia della letteratura fantasy e che non posso che consigliare a tutti gli appassionati di questo genere. Il mio unico avviso è di non fermarsi al primo o al secondo libro, qual'ora se ne rimanesse un po' delusi, ma di continuare fino in fondo. Solo così si può apprezzare compiutamente quest'opera, evidentemente nata fin da subito come un unicum, con tutti livelli, i messaggi e i passaggi (anche complicati) che contiene.
Titolo: "La Leggenda di Earthsea"
Edizione: Narrativa Nord
Anno: 2007
Il ciclo di Earthsea è considerato uno dei grandi capisaldi della letteratura fantasy di ogni tempo. L'autrice stessa, Ursula K. LeGuin, è un vero e proprio nome sacro per la letteratura fantastica, dal fantasy alla fantascienza, essendo riuscita a lasciare il segno in ogni genere in cui si sia cimentata.
Eppure, quando si inizia "Il Mago di Earthsea", primo libro del ciclo, la sensazione è che ci sia qualcosa che non va, che qualcuno si sia sbagliato, che non sia possibile che questa saga sia divenuta così famosa, che sia da tutti considerata un capolavoro. Al di là della lunghezza di ogni capitolo (tutti piuttosto corti, sotto alle duecento pagine l'uno), infatti, è proprio lo stile con cui le vicende di Sparviero (o Ged, a seconda che siate o meno suoi amici) sono narrate a lasciare un po' perplessi. I fatti si susseguono a un ritmo addirittura rutilante, non si ha quasi il tempo di fare la conoscenza di un personaggio, che questo è già parte del passato. Spesso, addirittura, si ha l'impressione che alcune cose vengano lasciate in sospeso, o quantomeno non vengano sufficientemente approfondite, come se l'autrice avesse fretta di raccontare tutto. Come se lo spazio fosse limitato, il tempo ristretto e bisognasse fare di necessità virtù nel far star più cose possibili nel romanzo.
Il risultato è un libro che scorre fin troppo, con tanti avvenimenti, ma, apparentemente, poco spessore.
Si tratta, però, di una sensazione fallace, destinata a cambiare poco a poco che si prosegue nella lettura dei volumi successivi della saga, ciascuno capace di aggiungere uno o più tasselli a un unico grande affresco. Bisogna, però, attendere solo l'ultimo libro, "I Venti di Earthsea", per riuscire ad apprezzare il disegno di questo mondo nella sua interezza.
Sia "Le Tombe di Atuan" che "La Spiaggia Più Lontana", infatti, sembrano romanzi quasi del tutto slegati da quelli che li hanno preceduti. Distanti anni come ambientazione e con situazioni che appaiono a sé stanti, presentano solo qualche lieve accenno agli avvenimenti già trascorsi e non sembrano risentirne più di tanto. Solo "L'Isola del Drago" sembra fin da subito legato a "La Spiaggia Più Lontana", quasi ne fosse un diretto seguito, anche se in realtà prende ben presto una sua strada indipendente, focalizzando inoltre l'attenzione su nuovi personaggi come protagonisti.
Benché l'approfondimento, pressoché assente nel primo, arrivi nei libri successivi, si continua a non avere del tutto la percezione di cosa renda questi libri un tale capolavoro. I difetti, qui e là, infatti, non sembrano mancare: l'approfondimento dei personaggi e della loro psicologia, infatti, a volte è perfino eccessiva, con lunghi soliloqui o interi capitoli quasi didascalici, al limite del noioso. L'unico che sembra presentare un buon equilibrio tra ritmo degli avvenimenti e costruzione dei personaggi è il quarto "L'Isola del Drago", gli altri soffrono di una eccessiva preponderanza dell'uno o dell'altro aspetto.
Certo, gli elementi di originalità non mancano, soprattutto se si pensa a quando i romanzi son stati scritti: la prevalenza delle acque, il fatto che la stragrande maggioranza dei personaggi siano di pelle nera o quantomeno molto scura (anche se tutte le traduzioni cinematografiche e televisive sembrano dimenticarlo o ignorarlo), i passaggi sul ruolo e la dignità della donna in "L'Isola del Drago", gli accenni neanche troppo velati all'omosessualità in "L'Isola Più Lontana", tutta la filosofia e i concetti su cui si basa la magia di quel mondo, etc. Tutto questo, però, inizialmente non sembra calato in un contesto che possa del tutto giustificare l'appellativo di capolavoro, quasi fossero buone idee slegate tra loro.
Tutto questo cambia nel momento in cui si va a leggere il romanzo conclusivo del ciclo: "I Venti di Earthsea". Non solo ci si rende conto che ogni libro precedente serviva solo a portarti un passo più vicino alla conclusione, quindi non si trattava di vicende scollegate tra loro. Non solo ci si rende conto che l'affresco realizzato dalla LeGuin è molto più complesso di come apparisse inizialmente, questo grazie ai rimandi incrociati, e inizialmente impossibili da cogliere, tra i capitoli della saga. Ma è come se, improvvisamente, tutti i pezzi di un puzzle, che componevano solo un caos inestricabile, in cui si potevano ravvedere solo alcuni, sparuti, assembramenti coerenti al loro interno, prendessero il proprio posto dipingendo un'unico schema, presente fin dall'inizio.
In questo, oltre che nel messaggio vero e proprio che traspare una volta colto schema di fondo e, in particolare, la filosofia del mondo di Earthsea, consiste la vera grandiosità di questa saga. Un ciclo che più che giustamente ricopre un ruolo fondamentale nella storia della letteratura fantasy e che non posso che consigliare a tutti gli appassionati di questo genere. Il mio unico avviso è di non fermarsi al primo o al secondo libro, qual'ora se ne rimanesse un po' delusi, ma di continuare fino in fondo. Solo così si può apprezzare compiutamente quest'opera, evidentemente nata fin da subito come un unicum, con tutti livelli, i messaggi e i passaggi (anche complicati) che contiene.
giovedì 17 ottobre 2013
Neil Gaiman - "Il Figlio del Cimitero"
Autore: Neil Gaiman
Titolo: "Il Figlio del Cimitero"
Edizione: Mondadori - Oscar
Anno: 2010
"Il Figlio del Cimitero" nasce come ampliamento di un racconto che Gaiman aveva già scritto e inserito nell'antologia "Il Cimitero senza Lapidi". Lo stesso Neil aveva presentato, durante una conferenza, la vicenda come una sorta di sua versione de "Il Libro della Giungla". Nell'opera di Kipling un neonato viene trovato dai lupi, adottato e allevato, impara dunque a vivere come gli animali e a fare le cose che fanno loro. Ma se un neonato venisse trovato dai morti, cosa succederebbe? La risposta di Gaiman è piuttosto semplice: "ovviamente imparerebbe a fare le cose che fanno i morti".
Un simile presupposto è, dunque, piuttosto curioso e interessante, sufficientemente folle per attirare la curiosità. Se a questo aggiungiamo la fama dell'autore, il gioco è fatto e la lettura diviene obbligata.
Il primo capitolo ci catapulta direttamente in medias res, con un bambino piccolo che sfugge, più per caso che altro, al massacro della sua famiglia. In realtà alcuni accenni ci fanno capire che era proprio lui il bersaglio del killer, ma la fortuna vuole che le sue piccole gambine lo portito fino al cimitero. Lì viene salvato e adottato da alcuni fantasmi, che gli danno nome Nobody Owens, per gli amici Bod.
La scrittura di Gaiman intriga fin da subito, con quel suo modo di raccontare con piccoli accenni e dettagli al limite del macabro, che fan capire senza esplicitare. Subito capiamo che vi è dietro qualcosa di grosso, ma il mistero, ovviamente, sarà svelato solo alla fine.
Nel frattempo la narrazione prosegue con capitoli che appaiono slegati l'uno dall'altro. L'autore vuole darci una panoramica della vita e della crescita di Bod, così ogni fase, ogni età, è contraddistinta da una vicenda, un racconto, apparentemente slegato dal resto.
Apparentemente, dicevamo, perchè, in realtà, alla fine molti fili lasciati in giro per il libro verranno tirati per condurre alla conclusione e allo svelamento del mistero che aleggia sulla testa del protagonista. Purtroppo, mentre si legge, la sensazione di essere di fronte a racconti staccati tra loro è molto forte. Contribuisce a questo anche Bod stesso che, col passare degli anni, cambia, come cambierebbe qualsiasi bambino mentre cresce. Proprio la bravura di Gaiman nel caratterizzare il personaggio è anche un po' il tallone d'Achille del romanzo, che risulta piuttosto slegato e lascia trasparire una sensazione di discontinuità.
Il finale, come si diceva, tira le somme e ci mostra come tutte le vicende fossero collegate e funzionali. A livello logico, quindi, si riesce ad apprezzare il lavoro di Gaiman nel suo complesso. A livello emotivo, invece, resta una punta di amarezza che non viene del tutto spazzata via.
Forse, la colpa, è anche della chiusura del libro. Le ultime pagine, infatti, sono di speranza e di apertura alla vita e al mondo, ma anche molto tristi. Ogni scelta porta con sé delle rinunce e per ogni porta nuova che si apre di fronte a noi, se ne deve chiudere una dietro.
Probabilmente con un finale meno educativo (perchè, in fondo, questo vuole: insegnarci qualcosa) e più consolatorio, "Il Figlio del Cimitero" sarebbe stato più apprezzabile anche di pancia, ma di certo avrebbe anche perso qualcosa.
Titolo: "Il Figlio del Cimitero"
Edizione: Mondadori - Oscar
Anno: 2010
"Il Figlio del Cimitero" nasce come ampliamento di un racconto che Gaiman aveva già scritto e inserito nell'antologia "Il Cimitero senza Lapidi". Lo stesso Neil aveva presentato, durante una conferenza, la vicenda come una sorta di sua versione de "Il Libro della Giungla". Nell'opera di Kipling un neonato viene trovato dai lupi, adottato e allevato, impara dunque a vivere come gli animali e a fare le cose che fanno loro. Ma se un neonato venisse trovato dai morti, cosa succederebbe? La risposta di Gaiman è piuttosto semplice: "ovviamente imparerebbe a fare le cose che fanno i morti".
Un simile presupposto è, dunque, piuttosto curioso e interessante, sufficientemente folle per attirare la curiosità. Se a questo aggiungiamo la fama dell'autore, il gioco è fatto e la lettura diviene obbligata.
Il primo capitolo ci catapulta direttamente in medias res, con un bambino piccolo che sfugge, più per caso che altro, al massacro della sua famiglia. In realtà alcuni accenni ci fanno capire che era proprio lui il bersaglio del killer, ma la fortuna vuole che le sue piccole gambine lo portito fino al cimitero. Lì viene salvato e adottato da alcuni fantasmi, che gli danno nome Nobody Owens, per gli amici Bod.
La scrittura di Gaiman intriga fin da subito, con quel suo modo di raccontare con piccoli accenni e dettagli al limite del macabro, che fan capire senza esplicitare. Subito capiamo che vi è dietro qualcosa di grosso, ma il mistero, ovviamente, sarà svelato solo alla fine.
Nel frattempo la narrazione prosegue con capitoli che appaiono slegati l'uno dall'altro. L'autore vuole darci una panoramica della vita e della crescita di Bod, così ogni fase, ogni età, è contraddistinta da una vicenda, un racconto, apparentemente slegato dal resto.
Apparentemente, dicevamo, perchè, in realtà, alla fine molti fili lasciati in giro per il libro verranno tirati per condurre alla conclusione e allo svelamento del mistero che aleggia sulla testa del protagonista. Purtroppo, mentre si legge, la sensazione di essere di fronte a racconti staccati tra loro è molto forte. Contribuisce a questo anche Bod stesso che, col passare degli anni, cambia, come cambierebbe qualsiasi bambino mentre cresce. Proprio la bravura di Gaiman nel caratterizzare il personaggio è anche un po' il tallone d'Achille del romanzo, che risulta piuttosto slegato e lascia trasparire una sensazione di discontinuità.
Il finale, come si diceva, tira le somme e ci mostra come tutte le vicende fossero collegate e funzionali. A livello logico, quindi, si riesce ad apprezzare il lavoro di Gaiman nel suo complesso. A livello emotivo, invece, resta una punta di amarezza che non viene del tutto spazzata via.
Forse, la colpa, è anche della chiusura del libro. Le ultime pagine, infatti, sono di speranza e di apertura alla vita e al mondo, ma anche molto tristi. Ogni scelta porta con sé delle rinunce e per ogni porta nuova che si apre di fronte a noi, se ne deve chiudere una dietro.
Probabilmente con un finale meno educativo (perchè, in fondo, questo vuole: insegnarci qualcosa) e più consolatorio, "Il Figlio del Cimitero" sarebbe stato più apprezzabile anche di pancia, ma di certo avrebbe anche perso qualcosa.
giovedì 26 settembre 2013
Arthur C. Clarke - "Incontro con Rama"
Autore: Arthur C. Clarke
Titolo: "Incontro con Rama"
Edizione: Mondadori - Urania Collezione n° 112
Anno: 2012
Leggendo "Incontro con Rama" è facile capire per quale motivo sia stato considerato, quasi fin da subito, come uno dei capolavori della fantascienza. Quantomeno di quella fantascienza che va sotto il nome di "Hard Science-Fiction".
Clark, infatti, non si impegna, con questo romanzo, a raccontare una storia. Non abbiamo una struttura che possa essere del tutto inscatolata nel classico progredire di inizio-svolgimento-fine. Quello a cui assistiamo è, semmai, uno spaccato di vita. Una sequenza di eventi in un determinato periodo di tempo. Eccezionali, avventurosi anche, ma apparentemente limitati a quel frangente che andiamo ad osservare.
Il motivo di questa precisazione è semplice ed è da ricercare in ciò che il lettore, di solito, si aspetta da un libro. Chi si aspettasse una qualche saga, con tanto di protagonisti prescelti per un qualche motivo o un finale che spiegasse, facesse rivelazioni o si svelasse in un colpo di scena, andrebbe del tutto deluso. Non è questo, infatti, l'obiettivo che Clark si è posto con "Incontro con Rama" e questo deve essere ben chiaro prima di prendere il mano il romanzo.
Ciò che l'autore voleva fare, e ci è riuscito benissimo, era raccontare nel modo più dettagliato e realistico possibile quello che sarebbe potuto essere l'incontro con un manufatto di origine aliena. I protagonisti, quindi, non sono eroi o prescelti, ma professionisti, persone normali, scelti solo perchè, per puro caso, son i più vicini all'oggetto da osservare. E tutto il libro è, sostanzialmente, l'osservazione, la descrizione, di ciò che nessun essere umano aveva mai visto prima, con tutto il suo bagaglio di paure e meraviglie. Ma è anche, soprattutto, una ricostruzione minuziosa delle forze, delle situazioni, delle architetture, dei materiali e delle reazioni che avvengono nello spazio e all'interno di Rama, svolta in maniera assolutamente plausibile. La narrazione, inoltre, non risente minimamente di questo sforzo, perchè risulta sempre scorrevole e a tratti addirittura incalzante nel suo raccontare le avventure, invenzioni e disavventure del gruppo di astronauti.
Proprio in questo sta la grandezza di "Incontro con Rama" e, da un certo punto di vista, anche il suo limite.
Se, infatti, Clarke centra perfettamente il suo obiettivo di scrivere un romanzo ambientato nello spazio rispettando appieno, e spiegando in maniera semplice e appassionante, la fisica di ogni situazione (risultando tanto perfetto da, pare, ispirare il programma di osservazione dello spazio proprio con questo libro), dall'altra parte manca un elemento che ha fatto grande la fantascienza. Da sempre la SF è stata spesso usata come allegoria del presente, come metafora per raccontare qualcosa del momento in cui il racconto o il romanzo veniva scritto. Il più delle volte era un mezzo per lanciare un messaggio, per mostrare le cose da un altro punto di vista o per muovere una critica. In "Incontro con Rama" tutto ciò è assente: l'indagine di questo mondo alieno è fine a sé stessa e non porta con sé neanche spiegazioni o rivelazioni, proprio perchè essendo alieno si affida a logiche e motivazioni lontane da noi e l'uomo non può sperare di poterlo comprendere appieno.
Questo libro di Clark, dunque, risulta pressochè perfetto sotto il profilo tecnico e narrativo, perchè colpisce in pieno gli obbiettivi che lo scrittore si era prefissato. Una vera e propria pietra miliare e una lettura obbligata nell'ambito dell'hard science-fiction, con cui tutti gli autori che volessero cimentarsi in questo genere devono confrontarsi ancora oggi. Ciò che gli manca è solo un po' di analisi sociale, di approfondimento dell'animo umano, che avrebbero potuto renderlo un capolavoro assoluto della fantascienza, al di là delle categorie e dei sottogeneri.
Titolo: "Incontro con Rama"
Edizione: Mondadori - Urania Collezione n° 112
Anno: 2012
Leggendo "Incontro con Rama" è facile capire per quale motivo sia stato considerato, quasi fin da subito, come uno dei capolavori della fantascienza. Quantomeno di quella fantascienza che va sotto il nome di "Hard Science-Fiction".
Clark, infatti, non si impegna, con questo romanzo, a raccontare una storia. Non abbiamo una struttura che possa essere del tutto inscatolata nel classico progredire di inizio-svolgimento-fine. Quello a cui assistiamo è, semmai, uno spaccato di vita. Una sequenza di eventi in un determinato periodo di tempo. Eccezionali, avventurosi anche, ma apparentemente limitati a quel frangente che andiamo ad osservare.
Il motivo di questa precisazione è semplice ed è da ricercare in ciò che il lettore, di solito, si aspetta da un libro. Chi si aspettasse una qualche saga, con tanto di protagonisti prescelti per un qualche motivo o un finale che spiegasse, facesse rivelazioni o si svelasse in un colpo di scena, andrebbe del tutto deluso. Non è questo, infatti, l'obiettivo che Clark si è posto con "Incontro con Rama" e questo deve essere ben chiaro prima di prendere il mano il romanzo.
Ciò che l'autore voleva fare, e ci è riuscito benissimo, era raccontare nel modo più dettagliato e realistico possibile quello che sarebbe potuto essere l'incontro con un manufatto di origine aliena. I protagonisti, quindi, non sono eroi o prescelti, ma professionisti, persone normali, scelti solo perchè, per puro caso, son i più vicini all'oggetto da osservare. E tutto il libro è, sostanzialmente, l'osservazione, la descrizione, di ciò che nessun essere umano aveva mai visto prima, con tutto il suo bagaglio di paure e meraviglie. Ma è anche, soprattutto, una ricostruzione minuziosa delle forze, delle situazioni, delle architetture, dei materiali e delle reazioni che avvengono nello spazio e all'interno di Rama, svolta in maniera assolutamente plausibile. La narrazione, inoltre, non risente minimamente di questo sforzo, perchè risulta sempre scorrevole e a tratti addirittura incalzante nel suo raccontare le avventure, invenzioni e disavventure del gruppo di astronauti.
Proprio in questo sta la grandezza di "Incontro con Rama" e, da un certo punto di vista, anche il suo limite.
Se, infatti, Clarke centra perfettamente il suo obiettivo di scrivere un romanzo ambientato nello spazio rispettando appieno, e spiegando in maniera semplice e appassionante, la fisica di ogni situazione (risultando tanto perfetto da, pare, ispirare il programma di osservazione dello spazio proprio con questo libro), dall'altra parte manca un elemento che ha fatto grande la fantascienza. Da sempre la SF è stata spesso usata come allegoria del presente, come metafora per raccontare qualcosa del momento in cui il racconto o il romanzo veniva scritto. Il più delle volte era un mezzo per lanciare un messaggio, per mostrare le cose da un altro punto di vista o per muovere una critica. In "Incontro con Rama" tutto ciò è assente: l'indagine di questo mondo alieno è fine a sé stessa e non porta con sé neanche spiegazioni o rivelazioni, proprio perchè essendo alieno si affida a logiche e motivazioni lontane da noi e l'uomo non può sperare di poterlo comprendere appieno.
Questo libro di Clark, dunque, risulta pressochè perfetto sotto il profilo tecnico e narrativo, perchè colpisce in pieno gli obbiettivi che lo scrittore si era prefissato. Una vera e propria pietra miliare e una lettura obbligata nell'ambito dell'hard science-fiction, con cui tutti gli autori che volessero cimentarsi in questo genere devono confrontarsi ancora oggi. Ciò che gli manca è solo un po' di analisi sociale, di approfondimento dell'animo umano, che avrebbero potuto renderlo un capolavoro assoluto della fantascienza, al di là delle categorie e dei sottogeneri.
lunedì 16 settembre 2013
Roberto Costantini - "Alle Radici del Male"
Autore: Roberto Costantini
Titolo: "Alle Radici del Male"
Edizione: Marsilio - Farfalle - I Gialli
Anno: 2012
Dopo "Tu Sei il Male", Costantini torna ad occuparsi delle vicende del commissario Balistreri con il secondo capitolo della trilogia, intitolato "Alle Radici del Male".
Ed è proprio dalle radici, nel passato dello stesso Balistreri, che il romanzo parte per introdurci in questa nuova indagine. Come sempre la scrittura è scorrevole, forse anche più che nel primo capitolo della saga. Per riuscirci, Costantini rinuncia a qualche preziosismo nello stile, sfruttando più di frequente similitudini ed espressioni colloquiali, invece di ricercare qualche metafora più originale e interessante. L'obiettivo, in ogni caso, è perfettamente centrato e riesce a coinvolgere il lettore anche con vicende che poco o nulla hanno di giallo, così ci troviamo a correre, pagina dopo pagina, seguendo le vicende di un giovane Balistreri nella Libia coloniale. Il suo rapporto conflittuale con il padre, l'infinita stima nei confronti della madre, la poca voglia di studiare e l'amicizia che lo lega agli altri ragazzi con cui fonderà la Mank, indipendentemente da colore della pelle ed estrazione sociale.
E' un Balistreri simile eppure diverso da quello che avevano imparato a conoscere in "Tu Sei il Male". E' spavaldo, spesso incosciente del pericolo come il Balistreri dell'82, ma ha anche dei principi e degli ideali (seppur non sempre condivisibili, anzi!), cosa ben diversa dal disincantato nichilista che sarebbe divenuto in seguito.
Come nel primo terzo della trilogia, anche "Alle Radici del Male" presenta una sorta di suddivisione in due. A una prima parte ambientata in Libia alla fine degli anni '60 (indubbiamente la migliore e più riuscita per la ricostruzione storica e la scorrevolezza della trama), ne fa seguito una seconda che è il diretto proseguo delle vicende dell'82 narrate nella prima parte di "Tu Sei il Male". In questo modo i due romanzi si intersecano raccontando pezzi di un'unica storia: quella di Balistreri, la sua evoluzione, la sua maturazione, la sua crescita interiore.
Proprio il personaggio di Balistreri è uno degli elementi che riescono a far spiccare il romanzo di Costantini dalla massa. Al di là delle indagini e dell'intreccio (in entrambi i libri con alcuni passaggi decisamente un po' forzati nella seconda metà, al fine di far quadrare il tutto), oltre allo stile molto pulito e scorrevole di Costantini, è proprio la crescita del protagonista a rendere interessante la lettura. La stessa persona, in periodi diversi della sua vita, sembra quasi personaggi diversi, con umori, idee, reazioni, quasi agli antipodi. Certamente uno dei meriti dell'autore è proprio quello di riuscire a caratterizzare Balistreri tanto bene. Così bene che, anche quando si dimostra uno stronzo fatto e finito (e vi assicuriamo che più si va avanti, peggio cose si scoprono su di lui e su ciò che è capace di fare, perchè, come si suol dire "il lupo perde il pelo, ma non vizio"), si fa fatica a staccarsi dalla pagina.
Non tutto, naturalmente, sulla storia e il passato del commissario è già stato narrato, per cui rimane abbondante materiale per il terzo volume, che chiaramente siam molto curiosi di leggere.
Titolo: "Alle Radici del Male"
Edizione: Marsilio - Farfalle - I Gialli
Anno: 2012
Dopo "Tu Sei il Male", Costantini torna ad occuparsi delle vicende del commissario Balistreri con il secondo capitolo della trilogia, intitolato "Alle Radici del Male".
Ed è proprio dalle radici, nel passato dello stesso Balistreri, che il romanzo parte per introdurci in questa nuova indagine. Come sempre la scrittura è scorrevole, forse anche più che nel primo capitolo della saga. Per riuscirci, Costantini rinuncia a qualche preziosismo nello stile, sfruttando più di frequente similitudini ed espressioni colloquiali, invece di ricercare qualche metafora più originale e interessante. L'obiettivo, in ogni caso, è perfettamente centrato e riesce a coinvolgere il lettore anche con vicende che poco o nulla hanno di giallo, così ci troviamo a correre, pagina dopo pagina, seguendo le vicende di un giovane Balistreri nella Libia coloniale. Il suo rapporto conflittuale con il padre, l'infinita stima nei confronti della madre, la poca voglia di studiare e l'amicizia che lo lega agli altri ragazzi con cui fonderà la Mank, indipendentemente da colore della pelle ed estrazione sociale.
E' un Balistreri simile eppure diverso da quello che avevano imparato a conoscere in "Tu Sei il Male". E' spavaldo, spesso incosciente del pericolo come il Balistreri dell'82, ma ha anche dei principi e degli ideali (seppur non sempre condivisibili, anzi!), cosa ben diversa dal disincantato nichilista che sarebbe divenuto in seguito.
Come nel primo terzo della trilogia, anche "Alle Radici del Male" presenta una sorta di suddivisione in due. A una prima parte ambientata in Libia alla fine degli anni '60 (indubbiamente la migliore e più riuscita per la ricostruzione storica e la scorrevolezza della trama), ne fa seguito una seconda che è il diretto proseguo delle vicende dell'82 narrate nella prima parte di "Tu Sei il Male". In questo modo i due romanzi si intersecano raccontando pezzi di un'unica storia: quella di Balistreri, la sua evoluzione, la sua maturazione, la sua crescita interiore.
Proprio il personaggio di Balistreri è uno degli elementi che riescono a far spiccare il romanzo di Costantini dalla massa. Al di là delle indagini e dell'intreccio (in entrambi i libri con alcuni passaggi decisamente un po' forzati nella seconda metà, al fine di far quadrare il tutto), oltre allo stile molto pulito e scorrevole di Costantini, è proprio la crescita del protagonista a rendere interessante la lettura. La stessa persona, in periodi diversi della sua vita, sembra quasi personaggi diversi, con umori, idee, reazioni, quasi agli antipodi. Certamente uno dei meriti dell'autore è proprio quello di riuscire a caratterizzare Balistreri tanto bene. Così bene che, anche quando si dimostra uno stronzo fatto e finito (e vi assicuriamo che più si va avanti, peggio cose si scoprono su di lui e su ciò che è capace di fare, perchè, come si suol dire "il lupo perde il pelo, ma non vizio"), si fa fatica a staccarsi dalla pagina.
Non tutto, naturalmente, sulla storia e il passato del commissario è già stato narrato, per cui rimane abbondante materiale per il terzo volume, che chiaramente siam molto curiosi di leggere.
martedì 20 agosto 2013
Dan Simmons - "Il Risveglio di Endymion"
Autore: Dan Simmons
Titolo: "Il Risveglio di Endymion"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
Dopo il mezzo passo falso di "Endymion", Dan Simmons cerca di riportarsi in carreggiata con il romanzo che chiude definitivamente il ciclo dei "Canti di Hyperion".
Diciamo subito che "Il Risveglio di Endymion" non è un libro facile, anche per via della sua lunghezza, ma soprattutto a causa dei suoi pregi e dei suoi difetti.
La scrittura è corposa, a tratti aulica, i concetti espressi si fanno di volta in volta più complicati e filosofici. Non è un caso, infatti, se molti danno anche l'etichetta Religione e Filosofia a "Il Risveglio di Endymion", per quanto si tratti di una evidente esagerazione.
La storia e la struttura stessa della narrazione, con tanti, tantissimi riferimenti al primo volume del ciclo e ai personaggi lì presenti, in alcuni momenti rende un po' ostico andare avanti e si è costretti a fermarsi un attimo a pensare e a frugare nella memoria. Senza una legenda di nomi o qualcosa di simile, a volte è un po' difficile ricordare chi fosse il tal personaggio e cosa avesse fatto (soprattutto se "Hyperion" lo si era letto anni e anni fa, magari ancora in edizione Mondadori).
Nonostante (o forse proprio per merito di) questi ostacoli, che sono naturalmente tra i pregi di questa opera, la lettura scorre e riesce a farsi seguire. Questo anche perchè la quantità di fatti e situazioni raccontate è enorme. Sicuramente è maggiore e più intricata di quel lineare e lungo viaggio, a tratti degno di un romanzo di space opera di medio livello, a cui si era ridotto il precedente "Endymion". No, qui si riprende invece lo stile che aveva contraddistinto "La Caduta di Hyperion", con tanti personaggi, ciascuno in punti nevralgici dell'universo, a diretto contatto con i centri del potere e le decisioni che contano.
E' evidente l'impegno di Simmons nel creare una sorta di dicotomia, di dualità: così come "Endymion" dovrebbe riprendere "Hyperion" per il tema del viaggio (seppur con risultati decisamente diversi), così "Il Risveglio di Endymion" dovrebbe riprendere "La Caduta di Hyperion" per stile e metodi narrativi.
Se l'intreccio narrativo dunque funziona, sono altre le pecche di questo romanzo, sia dal punto di vista concettuale che di mera scrittura.
Quella che, infatti, era nata come una grandiosa saga di fantascienza, basata su viaggi nel tempo e nello spazio, guerre, intelligenze artificiali e mille altre cose, qui diviene a tratti una vicenda religioso/messianica. Alcuni dei concetti alla base dei primi libri, come la libertà di scelta, l'accettazione (e la bellezza) della diversità delle forme di vita umana (anche e soprattutto là dove si evolve in qualcosa di apparentemente alieno), sono mantenuti. Ma Simmons ogni tot di pagine ci tiene a sottolineare come alcune cose dette dei primi 2 libri fossero menzogne o semplificazioni materiali e a sostituire fatti e concetti scientifici con rivelazioni filosofiche. Ogni idea meta-scientifica viene svilita e definita come la visione miope e terra-terra di qualcosa di incomprensibile e metafisico. Un modo di fare ripetuto tanto spesso da far ben presto pensare al lettore a un cambio di rotta in corso d'opera (che neanche noi escludiamo). Per quanto, dunque, la storia si lasci seguire e riesca anche ad appassionare e a coinvolgere, ci sembra quindi un po' riduttivo, semplicistico e (diciamolo) opportunistico, riportare tutta la vicenda solo alla figura messianica di Aenea (per quanto lei continui a dire di NON essere un messia).
La tecnologia viene superata (e ridicolizzata), dalla fede e dalla religione che permettono gesti e azioni ben più grandi e incredibili. Addirittura viene demonizzata, perchè descritta come qualcosa di distruttivo e innaturale. Mentre motore di tutto, fin dall'inizio del primo libro, alla fine si rivela essere la vita, con la V maiuscola, entità metafisica e metadimensionale che tutto muove e tutto dirige per i suoi scopi, come una sorta di grande architetto.
Dall'altra parte, inoltre, vi sono alti e bassi anche a livello di scrittura. Simmons passa, senza soluzione di continuità, da momenti frenetici, in cui fa succede mille cose in contemporanea, ad altri in cui si prende 50/100 pagine di vacanza. Ad esempio descrizioni, similitudini e metafore riguardo a TUTTE le catene montuose di un pianeta e a TUTTE le sue formazioni nuvolose, che sembrano puri e semplici esercizi di stile fini a se stessi.
Per concludere, tirando le fila non solo de "Il Risveglio di Endymion", ma di tutto il ciclo, il mio consiglio non può che essere di leggerlo. Si tratta di un consiglio che sembra andare contro al tono di questa recensione, è vero. Molto semplicemente questi quattro libri insieme sono, effettivamente, una grande opera che qualsiasi appassionati di SF dovrebbe leggere.
Non si può, però, neanche negare che, iniziato benissimo con un capolavoro che trascende le etichette di genere e proseguito con un grandissimo libro di fantascienza, il ciclo abbia poi avuto un tonfo con il terzo e si sia poi solo un po' rialzato con l'ultimo capitolo, pur senza tornare ai fasti dell'inizio e, soprattutto, prendendo una strada che sembra tradire l'idea originale. Avvisati di questo, quindi, si potrebbe riuscire a leggere gli ultimi due volumi nella giusta ottica e, magari, anche apprezzarli maggiormente.
Titolo: "Il Risveglio di Endymion"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
Dopo il mezzo passo falso di "Endymion", Dan Simmons cerca di riportarsi in carreggiata con il romanzo che chiude definitivamente il ciclo dei "Canti di Hyperion".
Diciamo subito che "Il Risveglio di Endymion" non è un libro facile, anche per via della sua lunghezza, ma soprattutto a causa dei suoi pregi e dei suoi difetti.
La scrittura è corposa, a tratti aulica, i concetti espressi si fanno di volta in volta più complicati e filosofici. Non è un caso, infatti, se molti danno anche l'etichetta Religione e Filosofia a "Il Risveglio di Endymion", per quanto si tratti di una evidente esagerazione.
La storia e la struttura stessa della narrazione, con tanti, tantissimi riferimenti al primo volume del ciclo e ai personaggi lì presenti, in alcuni momenti rende un po' ostico andare avanti e si è costretti a fermarsi un attimo a pensare e a frugare nella memoria. Senza una legenda di nomi o qualcosa di simile, a volte è un po' difficile ricordare chi fosse il tal personaggio e cosa avesse fatto (soprattutto se "Hyperion" lo si era letto anni e anni fa, magari ancora in edizione Mondadori).
Nonostante (o forse proprio per merito di) questi ostacoli, che sono naturalmente tra i pregi di questa opera, la lettura scorre e riesce a farsi seguire. Questo anche perchè la quantità di fatti e situazioni raccontate è enorme. Sicuramente è maggiore e più intricata di quel lineare e lungo viaggio, a tratti degno di un romanzo di space opera di medio livello, a cui si era ridotto il precedente "Endymion". No, qui si riprende invece lo stile che aveva contraddistinto "La Caduta di Hyperion", con tanti personaggi, ciascuno in punti nevralgici dell'universo, a diretto contatto con i centri del potere e le decisioni che contano.
E' evidente l'impegno di Simmons nel creare una sorta di dicotomia, di dualità: così come "Endymion" dovrebbe riprendere "Hyperion" per il tema del viaggio (seppur con risultati decisamente diversi), così "Il Risveglio di Endymion" dovrebbe riprendere "La Caduta di Hyperion" per stile e metodi narrativi.
Se l'intreccio narrativo dunque funziona, sono altre le pecche di questo romanzo, sia dal punto di vista concettuale che di mera scrittura.
Quella che, infatti, era nata come una grandiosa saga di fantascienza, basata su viaggi nel tempo e nello spazio, guerre, intelligenze artificiali e mille altre cose, qui diviene a tratti una vicenda religioso/messianica. Alcuni dei concetti alla base dei primi libri, come la libertà di scelta, l'accettazione (e la bellezza) della diversità delle forme di vita umana (anche e soprattutto là dove si evolve in qualcosa di apparentemente alieno), sono mantenuti. Ma Simmons ogni tot di pagine ci tiene a sottolineare come alcune cose dette dei primi 2 libri fossero menzogne o semplificazioni materiali e a sostituire fatti e concetti scientifici con rivelazioni filosofiche. Ogni idea meta-scientifica viene svilita e definita come la visione miope e terra-terra di qualcosa di incomprensibile e metafisico. Un modo di fare ripetuto tanto spesso da far ben presto pensare al lettore a un cambio di rotta in corso d'opera (che neanche noi escludiamo). Per quanto, dunque, la storia si lasci seguire e riesca anche ad appassionare e a coinvolgere, ci sembra quindi un po' riduttivo, semplicistico e (diciamolo) opportunistico, riportare tutta la vicenda solo alla figura messianica di Aenea (per quanto lei continui a dire di NON essere un messia).
La tecnologia viene superata (e ridicolizzata), dalla fede e dalla religione che permettono gesti e azioni ben più grandi e incredibili. Addirittura viene demonizzata, perchè descritta come qualcosa di distruttivo e innaturale. Mentre motore di tutto, fin dall'inizio del primo libro, alla fine si rivela essere la vita, con la V maiuscola, entità metafisica e metadimensionale che tutto muove e tutto dirige per i suoi scopi, come una sorta di grande architetto.
Dall'altra parte, inoltre, vi sono alti e bassi anche a livello di scrittura. Simmons passa, senza soluzione di continuità, da momenti frenetici, in cui fa succede mille cose in contemporanea, ad altri in cui si prende 50/100 pagine di vacanza. Ad esempio descrizioni, similitudini e metafore riguardo a TUTTE le catene montuose di un pianeta e a TUTTE le sue formazioni nuvolose, che sembrano puri e semplici esercizi di stile fini a se stessi.
Per concludere, tirando le fila non solo de "Il Risveglio di Endymion", ma di tutto il ciclo, il mio consiglio non può che essere di leggerlo. Si tratta di un consiglio che sembra andare contro al tono di questa recensione, è vero. Molto semplicemente questi quattro libri insieme sono, effettivamente, una grande opera che qualsiasi appassionati di SF dovrebbe leggere.
Non si può, però, neanche negare che, iniziato benissimo con un capolavoro che trascende le etichette di genere e proseguito con un grandissimo libro di fantascienza, il ciclo abbia poi avuto un tonfo con il terzo e si sia poi solo un po' rialzato con l'ultimo capitolo, pur senza tornare ai fasti dell'inizio e, soprattutto, prendendo una strada che sembra tradire l'idea originale. Avvisati di questo, quindi, si potrebbe riuscire a leggere gli ultimi due volumi nella giusta ottica e, magari, anche apprezzarli maggiormente.
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