Autore: Mark Millar (storia), Dave Johnson, Kilian Plunkett (disegni)
Titolo: "Superman Red Son"
Edizione: RW Lion
Anno: 2012
Mark Millar negli ultimi anni è divenuto una specie di superstar dei fumetti, come non accadeva da diversi anni, dai tempi di gente come McFarlane, Jim Lee e co. che trasformavano in oro tutto quello toccavano. Leggendo "Superman Red Son" se ne capisce facilmente il motivo. Millar, rispetto ai predecessori che ho citato, però, ha qualcosa in più, perchè le sue storie non sono solo bei disegni, colori al pc o copertine metallizzate, ma soprattutto idee.
"Superman Red Son" si trova al di fuori della normale continuity dell'Uomo d'Acciaio e questo giova moltissimo alla storia che, nelle mani di Millar, non diventa solo un classico "what if...", ma un affresco distopico che, a sua volta, si trasforma in racconto di fantascienza. Inoltre queste caratteristiche fanno sì che possa essere letto da tutti, sia dai fan dell'Uomo d'Acciaio che dal semplice appassionato di fumetti, che dal lettore occasionale che vi si accosta incuriosito (magari proprio da questa recensione).
Al di là della bellezza della storia, dei valori espressi e dell'interessante esperimento di immaginare cosa sarebbe successo se Superman fosse arrivato in Russia invece che in USA, il merito di Millar, a mio avviso, è un altro. L'autore, infatti, non tocca quasi per nulla il personaggio del protagonista, Superman è sempre quello che conosciamo, pieno di buone intenzioni e buoni sentimenti. Non è, quindi, il regime comunista a "influenzarlo" e a trasformarlo in un despota, è, invece, solo una scusa per Millar per poter avere le mani libere. In questo modo l'autore può spingere al massimo su quelle che sono le propensioni stesse del personaggio, mettendone in luce tutte le contraddizioni e i problemi. D'altronde come recita un saggio detto popolare: "la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni" e Millar ce lo dimostra con un graphic-novel di grande livello che si legge come un romanzo.
Una piccola annotazione conclusiva non può che essere d'elogio per l'edizione con copertina rigida e di pregio, capace di dare a questo volume il giusto rilievo nelle librerie di tutti gli appassionati.
recensioni a mente libera di libri, fumetti, manga, graphic novel e, perchè no, magari anche qualche film e telefilm...
Avvertenze
- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -
sabato 22 dicembre 2012
lunedì 17 dicembre 2012
Valerio Evangelisti - "Cartagena, gli Ultimi della Tortuga"
Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Cartagena, gli Ultimi della Tortuga"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2012
Si conclude con "Cartagena" la trilogia di Valerio Evangelisti dedicata ai pirati. E si conclude con quello che, a caldo, è forse anche il capitolo più bello.
Mentre in "Tortuga" e in "Veracruz" la filibusta era ancora ai tempi del suo massimo fulgore (se così si può dire), in "Cartagena" la compagnia dei Fratelli della Costa è ormai allo sbando. I grandi capitani del passato non ci sono più, quelli rimasti sono solo l'ombra di coloro che li hanno preceduti. La pirateria è ormai considerata superata, sia da coloro che l'avevano fomentata e armata (le grandi potenze europee), che da coloro che la praticano.
Questo il quadro storico in cui la vicenda è ambientata. Vicenda che, come spesso accade nelle opere di Evangelisti, si presta a più livelli di lettura.
Il primo, quello più prettamente narrativo e d'intrattenimento, vede i pirati non più in grado di dare l'assalto alle città sulla costa come facevano un tempo. Per questo motivo scende a patti con la madre-patria Francia e si unisce all'esercito regolare. E' così che entra in scena il protagonista Martin D'Orlhac: inizialmente spia dei nobili, finirà per passare definitivamente tra le fila dei pirati per la loro maggiore sincerità. Tra i personaggi della trilogia dei pirati è forse il più simpatico, perchè non vile o ottuso al pari dei suoi predecessori.
Il secondo livello di lettura, invece, è quello più importante e interessante. I pirati di Evangelisti, infatti, non si prestano bene a fare la parte degli eroi o dei simboli della libertà e della ribellione. Certo, tra le loro fila vige una specie di democrazia che in Europa, al tempo, nessuno si sognava. Ciò che guida le loro azioni, però, è soprattutto la ricerca spregiudicata del profitto. Profitto a ogni costo e a danno di chiunque. I pirati divengono, quindi, precursori di quel liberismo estremo, di quel capitalismo che non guarda in faccia a nessuno, su cui Evangelisti vuole farci riflettere.
L'ultimo capitolo del libro, con il definitivo abbandono della pirateria in favore di nuovi e diversi metodi di guadagno, attraverso la creazione di un vero e proprio libero mercato in Louisiana, è solo la naturale evoluzione del discorso iniziato in "Tortuga".
Un libro da leggere e consigliare, perchè intrattiene, ma al contempo fa riflettere, molto più di tanti trattati.
Titolo: "Cartagena, gli Ultimi della Tortuga"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2012
Si conclude con "Cartagena" la trilogia di Valerio Evangelisti dedicata ai pirati. E si conclude con quello che, a caldo, è forse anche il capitolo più bello.
Mentre in "Tortuga" e in "Veracruz" la filibusta era ancora ai tempi del suo massimo fulgore (se così si può dire), in "Cartagena" la compagnia dei Fratelli della Costa è ormai allo sbando. I grandi capitani del passato non ci sono più, quelli rimasti sono solo l'ombra di coloro che li hanno preceduti. La pirateria è ormai considerata superata, sia da coloro che l'avevano fomentata e armata (le grandi potenze europee), che da coloro che la praticano.
Questo il quadro storico in cui la vicenda è ambientata. Vicenda che, come spesso accade nelle opere di Evangelisti, si presta a più livelli di lettura.
Il primo, quello più prettamente narrativo e d'intrattenimento, vede i pirati non più in grado di dare l'assalto alle città sulla costa come facevano un tempo. Per questo motivo scende a patti con la madre-patria Francia e si unisce all'esercito regolare. E' così che entra in scena il protagonista Martin D'Orlhac: inizialmente spia dei nobili, finirà per passare definitivamente tra le fila dei pirati per la loro maggiore sincerità. Tra i personaggi della trilogia dei pirati è forse il più simpatico, perchè non vile o ottuso al pari dei suoi predecessori.
Il secondo livello di lettura, invece, è quello più importante e interessante. I pirati di Evangelisti, infatti, non si prestano bene a fare la parte degli eroi o dei simboli della libertà e della ribellione. Certo, tra le loro fila vige una specie di democrazia che in Europa, al tempo, nessuno si sognava. Ciò che guida le loro azioni, però, è soprattutto la ricerca spregiudicata del profitto. Profitto a ogni costo e a danno di chiunque. I pirati divengono, quindi, precursori di quel liberismo estremo, di quel capitalismo che non guarda in faccia a nessuno, su cui Evangelisti vuole farci riflettere.
L'ultimo capitolo del libro, con il definitivo abbandono della pirateria in favore di nuovi e diversi metodi di guadagno, attraverso la creazione di un vero e proprio libero mercato in Louisiana, è solo la naturale evoluzione del discorso iniziato in "Tortuga".
Un libro da leggere e consigliare, perchè intrattiene, ma al contempo fa riflettere, molto più di tanti trattati.
mercoledì 12 dicembre 2012
LOST
Ci sono serie che passano alla storia per la loro bellezza e la loro capacità di cambiare il modo di fare tv. E ci sono serie capolavoro che rimangono appannaggio solo di pochi appassionati.
Ci sono serie pessime che chiudono, giustamente, dopo solo una stagione, a volte anche prima. E ci sono serie che ottengono un inspiegabile successo, nonostante la penuria di capacità recitative e la banalità delle sceneggiature.
Poi c'è LOST.
La creatura di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber è stato un vero e proprio fenomeno popolare, culturale e di costume per svariati anni. Ha, inoltre, avuto tali e tanti alti e bassi, che è impossibile parlarne in maniera univoca e globale. Per questo questa recensione si svilupperà in 6 mini-capitoli, ognuno dedicato a ciascuna delle stagioni che compongono la serie. Ciò per meglio metterne in luce pregi e difetti, ma anche per dare una scansione cronologica al "fenomeno" LOST e alla sua evoluzione. Per fare questo, però, è necessario fin da subito avvisare i lettori che gli SPOILER saranno numerosi e, in alcuni casi, anche molto approfonditi.
Stagione 1:
Un incidente aereo. E' così che si apre la serie. Un nutrito numero di persone che, fino a poco tempo prima non si conoscevano neanche di vista, sopravvive allo schianto del proprio volo di linea e si ritrova su un'isola deserta. Un incipit non originalissimo, ma reso interessante da alcune trovate.
Ovviamente, ben presto, i sopravvissuti scopriranno di non essere soli e si troveranno ad avere a che fare con diversi misteri apparentemente insolubili. Ad esempio cosa ci fa un orso polare su un'isola tropicale? E come funziona quella specie di sistema di sorveglianza dell'isola che si attiva solo in alcune zone, ha l'aspetto di una nuvola di fumo nero ed emette suoni di cingoli e ingranaggi? I sopravvissuti vengono tutti dall'aereo o qualcuno era già sull'isola? Cosa ci sarà sotto a un portello nel mezzo dell'isola?
Domande che servono a tenere i telespettatori attaccati allo schermo, ma che non son l'unico motivo di successo. Anzi, la vera innovazione è un'altra ed è legata ai personaggi. Attraverso un sapiente uso dei flash-back (numerosi in ogni puntata), il pubblico conosce sia la persona sull'isola che gli avvenimenti del suo passato. Così capita spesso che personaggi positivi a una prima occhiata si rivelino cattivi o viceversa. Ogni puntata, però, sembra anche fatta apposta per smantellare quanto già si sapeva di ciascuno di loro, continuando a capovolgere le idee e le certezze dello spettatore.
Attraverso l'uso di questi flash-back, inoltre, si creano legami tra i personaggi di cui neanche loro sono a conoscenza e tra loro e l'isola. Insomma i misteri si infittiscono, ma son soprattutto i rapporti di forza tra gli attori quelli che tengono il pubblico attaccato allo schermo, come in una complessa partita a scacchi in cui ogni mossa può avere effetti imprevedibili.
Si tratta del punto più alto della serie, in cui le aspettative sono altissime e la realizzazione non è da meno. Il successo di questa prima stagione, sia di pubblico che di critica, cambierà in maniera drastica il modo di fare tv e, tutt'oggi, rimane un'ottima esperienza da consigliare a chi voglia vedere una serie di alto livello.
Stagione 2:
Si riprende là dove la prima stagione si era interrotta. Come tutte le puntate, anche il finale di stagione era terminato con un climax: la botola era stata aperta e dava su un bunker sotterraneo, da cui sembra provenire una debole luce; inoltre il gruppo che aveva tentato la fortuna su una zattera viene attaccato dagli "altri" e Walt, il figlio di Michael, che sembra avere strani e potenti poteri mentali, viene rapito.
Le promesse che erano state fatte nella prima stagione sembrano mantenersi. I cambiamenti sono ovvi e radicali, gli "altri" ormai sono una certezza e, chiaramente, per ogni mistero svelato ve ne è uno nuovo. Il gioco, inoltre, riesce ancora piuttosto bene e non mostra ancora la corda. Al contrario riesce a toccare, in alcuni momenti, livelli più alti della prima. In particolare il merito è del personaggio di Benjamin Linus (interpretato da un magistrale Michael Emerson), cioè l'equivoco fatto persona, molto probabilmente uno dei "cattivi" migliori della storia della televisione. Le puntate in cui lui si trova al centro degli avvenimenti sono tutti piccoli gioiellini che riescono a regalare qualche novità, qualche sorpresa, anche dopo svariate visioni.
E' sul finale di questa seconda stagione che qualcosa comincia a scricchiolare. La sensazione è che qualcosa non stia andando secondo i piani iniziali e che si debba correre ai ripari o che, quantomeno, sia il caso di distrarre l'attenzione del pubblico perchè non si faccia certe domande. Come riuscirci? Ovviamente ponendo gli spettatori di fronte a ulteriori misteri, per esempio la scoperta del piede di una statua gigantesca, sulle dimensioni del Colosso di Rodi, con sole quattro dita. Perchè quattro dita, si domandan tutti. E dimenticano di chiedersi per quale motivo Walt, lo straordinario Walt, quello con i poteri, quello speciale, quello su cui tutti volevano mettere le mani nella prima stagione (sia sull'isola che fuori), nell'ultima puntata lasci l'isola e scompaia per sempre.
Stagione 3:
Dopo sole due stagioni, è già l'inizio della fine. Le puntate scorrono piuttosto bene e gli sceneggiatori svolgono sempre un gran bel lavoro, riuscendo a terminare ogni episodio con un climax e a tenere gli spettatori attaccati allo schermo dall'inizio alla fine. Dopo la visione, però, la curiosità di sapere cosa succederà dopo è molta meno che nelle prime due stagioni. I motivi sono molteplici e facilmente rintracciabili.
Il primo e più evidente son i misteri. Dopo due stagioni e svariati episodi il pubblico gradirebbe qualche risposta in più, ma queste non arrivano. Al contrario arrivano solo ulteriori domande. Vi è, inoltre, la sensazione che situazioni che nelle stagioni precedenti si risolvevano in un solo episodio, questa volta vengano trascinati per 2 o 3, come a voler allungare oltremodo il brodo. Infine vi sono i filler. Puntate autoconclusive, del tutto avulse dalla trama generale della serie e che non lasciano strascichi, utili solo al raggiungimento dei fatidici 24 episodi (in questo caso ridotti a 22) per fare una stagione intera.
In generale, insomma, quella che si respira è un po' un'aria di stanca. Le idee sembrano essere un po' agli sgoccioli, ma il titolo continua a tirare, soprattutto per le operazioni commerciali esterne alla serie e che coinvolgono tv, radio e web. Inoltre il network ha appena allungato la "vita" della serie dalle 3 stagioni iniziali a 7, nonostante uno dei creatori, J.J. Abrams, abbia fatto le valigie e si sia trasferito alla concorrenza dietro compenso faraonico. Quindi la serie DEVE andare avanti, in un modo o nell'altro.
Nonostante qualche episodio zoppicante e qualche ulteriore incongruenza, per fortuna piuttosto secondaria, la serie riesce a mantere ancora una sua coerenza di fondo. I colpi di scena, quando ci sono e non si basano solo su ulteriori misteri, funzionano bene. Si sottolinea, inoltre, un elemento già presente nelle prime due stagioni, ma che poteva inizialmente essere considerato solo come un semplice caso, cioè i nomi di molti personaggi. Alcuni, infatti, hanno il nome di scrittori e/o filosofi del passato, le cui idee, spesso, guarda caso ricalcano proprio le personalità dei suddetti personaggi. Con la terza stagione questo fatto sembra divenire sistematico e preludere a qualche ulteriore rivelazione. Purtroppo sono speranze che verranno vanificate.
Il classico climax di fine stagione, infine, serve da apripista per introdurre il nuovo "cattivo" della serie.
Stagione 4:
Se nelle prime 3 stagioni, infatti, il cattivo era stato un macchiavellico e manipolatore Benjamin Linus, la quarta ci spiega le sue vere motivazioni. Linus, infatti, sembrerebbe aver fatto quello che ha fatto solo per proteggere l'isola, i suoi misteri, le sue peculiarità, da chi avrebbe potuto o voluto sfruttarla. Come, per esempio, il gruppo Dharma. A seconda del punto di vista (quello di Linus o di qualcun altro), ciò che ha compiuto può essere quindi considerato giusto o sbagliato.
Uno degli "altri", scacciato tempo prima dall'isola, però, ritorna con intenzioni quanto mai vendicative. Si tratta di Charles Widmore. Nasce dunque una interessante dicotomia tra Linus e Widmore. Nessuno dei due è uno stinco di santo, entrambi hanno ingannato, ucciso e tradito per i proprio scopi. Entrambi son convinti di fare la cosa giusta: da una parte chi vuole proteggere e preservare l'isola, dall'altra chi la vuole studiare per portare nuove medicine o tecnologie a tutta l'umanità.
Entrambi sono buoni e cattivi insieme. Più che personaggi assurgono allo status di icone che rappresentano la dicotomia del mondo moderno tra fede da una parte e progresso dall'altra. Con tutte le luci e le ombre di cui entrambe son portatrici.
Se a livello concettuale le idee ci sono, a quello pratico gli episodi cominciano a incartarsi tra loro. Le incongruenze divengono numerose e i misteri, a questo punto, quasi gratuiti. Sembra ormai non passare puntata senza che si faccia uso di un nuovo mistero per tenere alta l'attenzione e terminare con un climax che faccia porre al pubblico nuove domande.
Proprio per questo le speculazioni degli appassionati sui forum e in rete, ormai, giungono a livelli altissimi per complessità (per riuscire a giustificare tutto, anche quello che gli sceneggiatori han dimenticato per strada) e genialità. Gli spettatori, invece, calano. La storia, ormai, è molto complessa e procede ininterrottamente dal primo episodio della prima stagione. Difficile, quindi, riuscire a conquistare nuovi spettatori in corsa, i quali si trovano proiettati in vicende che non riescono a capire e con troppi rimandi agli episodi precedenti. Il pubblico degli inizi, invece, tende sempre più a notare come il gioco, ormai, mostri un po' troppo la corda e finisce per lasciare.
Da sette stagioni programmate (da 24 episodi l'una), il network decide di calare un po' e di chiudere in cinque. Ma lo sciopero degli sceneggiatori si abbatte anche su LOST e la quarta stagione chiude anticipatamente con soli 13 episodi, costringendo tutti a cambiare ulteriormente i piani.
Il colpo di coda della quarta stagione è il ritorno a casa di una buona metà dei protagonisti. Mentre Linus, per salvare l'isola dagli uomini di Widmore, manovra quello che appare come un timore incastonato in una parete di pietra e "sposta" l'isola.
Stagione 5:
La chiusura anticipata della quarta stagione porta alla decisione di realizzarne altre due (invece di una sola, come programmato), ma entrambe più corte di una normale, cioè da 16 episodi l'una (in totale, quindi, 4°, 5° e 6° contano 45 episodi, meno di 2 stagioni normali).
Si inizia con Jack tormentato dall'idea di tornare sull'isola. Sembrerebbe per i rimorsi di aver lasciato indietro gli altri, in realtà è più probabile che la colpa sia del fatto che sulla terra ferma è uno come tanti, mentre sull'isola lui era un capo, una guida, qualcuno a cui tutti si affidavano per le decisioni giuste. Queste motivazioni in chiaro-scuro, questo creare delle personalità con luci e ombre, fanno ben sperare, ma son solo fuochi di paglia. Ben presto, infatti, la stagione si appiattisce in una serie di episodi piuttosto insulsi e inconcludenti in cui il brodo è allungato all'infinito. Ogni scusa è buona per creare problemi o imprevisti al piano di Jack e co. di tornare sull'isola, non ultimo un John Locke passato a miglior vita.
Sull'isola, intanto, i personaggi continuano a saltare avanti e indietro nel tempo. Questo escamotage torna molto utile agli sceneggiatori per raccontare un po' del passato del Progetto Dharma senza l'uso di altri flash-back e, ovviamente, creare ulteriori misteri.
E' a questo punto che avviene il definitivo crollo della serie.
Quella dei salti nel tempo poteva essere l'idea vincente, per quanto un po' stiracchiata, per far tornare tutte le incongruenze e tutti i misteri ammucchiati fino a questo punto (e anche quelli successivi). Purtroppo i piani di Lindelof e Cuse (da loro stessi proclamati come i responsabili della conclusione di LOST) prevedevano qualcosa di completamente diversi.
Già nella quarta stagione si era timidamente evoluta la figura di Jacob. Inizialmente solo un'entità di cui Linus afferma di eseguire gli ordini, ma che nessuno ha in realtà mai visto, diviene un personaggio stabile della serie e a cui si fa sempre più riferimento. Improvvisamente tutto e tutti passano attraverso lui, la sua guida o il suo intervento. Ben presto diviene una sorta di personificazione del bene a cui, però, occorre contrapporre una figura negativa altrettanto importante.
Ciò che rendeva così interessante LOST all'inizio, le sfaccettature dei personaggi, il loro non essere né buoni né cattivi, ma entrambi al contempo. Gli scontri di personalità e di idee, l'estremizzazione di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare per un'ideologia. Tutto questo finisce nel cesso e viene tirato lo sciacquone.
Tutto è molto più semplice: il bene contro il male.
Stagione 6:
Siamo al definitivo disfacimento della serie. Ormai praticamente nulla è rimasto di ciò che era all'inizio. Soprattutto nulla è rimasto delle buone idee della prima stagione, soppiantato da banalità, incongruenze e dal pedissequo ricorso a nuovi misteri per tentare di tenere alta l'attenzione del pubblico. Ma siamo alle battute finali e sarebbe, finalmente, ora di dare qualche risposta, magari anche sensata, visto che le puntate che mancano alla conclusione non son infinite.
Così non avviene.
Al contrario si allunga il brodo come mai prima. I flash-back, punto di forza e tratto distintivo della serie, in questa sesta stagione sono soppiantati dagli avvenimenti di quella che appare, inizialmente, come una sorta di realtà alternativa. Cosa sarebbe accaduto se l'aereo non si fosse schiantato? Si scoprirà, in realtà, essere un aldilà, una specie di "stanza di passaggio", in attesa che tutti i personaggi (ma solo gli attori che han firmato per quest'ultima rimpatriata) siano pronti al definitivo passaggio oltre.
Allora erano tutti morti come qualcuno pensava fin dall'inizio?
No, questo mondo dell'aldilà accoglie tutti i personaggi quando, prima o poi, moriranno. Alcuni pochi mesi dopo la fine della serie, altri anni e anni dopo. Naturalmente questo significa che ciò che viene mostrato di questa realtà non ha alcuna connessione con la vicenda principale ed è solo un modo per allungare il brodo, quindi vediamo cosa succede nella realtà.
Come dicevamo, una volta comparso il bene personificato, tocca al male. Ecco, quindi, che il fumo nero, il servizio di sicurezza dell'isola, che nella prima stagione era solo una macchina, diviene un'entità. Un'entità capace di assumere le sembianze di chi vuole. Questo sembrerebbe motivazione sufficiente, agli sceneggiatori, per giustificare le comparsate del padre morto di Jack nelle prime stagioni (peccato che fossero tutte apparizioni positive, non negative) e il far comportare Linus come un perfetto idiota agli ordini di un resuscitato Locke (personalmente sospetto che entrambi si siano vergognati come ladri a recitare quelle parti, ma temo dovrò tenermi il sospetto, almeno finchè non potrò chiederglielo di persona).
Altra cosa che agli sceneggiatori appare del tutto naturale, ma con cui molti fan potrebbero non trovarsi d'accordo, è il fatto che avere per le mani la personificazione del male risolva automaticamente tutto. I misteri delle stagioni precedenti, infatti, non importano più. Nulla conta più. Non contano le vicende dei personaggi né le loro caratterizzazioni, le domande lasciate in sospeso, perfino quello che è stato detto e mostrato è inutile e superato (dalle incongruenze).
Ormai tutto è solo Jacob contro l'Uomo Nero.
Quella che era una serie di fantascienza, con delle bellissime caratterizzazioni dei personaggi e un modo innovativo di raccontare la storia, diventa uno spot per la "fede". Perfino Jack, il razionale per eccellenza, alla fine viene convertito e si dona, anima e corpo, per salvare l'isola, la luce, il mondo.
Perchè?
Ecco, in realtà tutto ciò non è proprio ben spiegato. Così come molte altre cose.
Tutto merito di Damon Lindelof e Carlton Cuse, secondo cui le idee e le ipotesi che giravano sul web erano così belle, brillanti, originali e geniali... che non avrebbero mai potuto competere con loro. Meglio, allora, non spiegare nulla, finire tutto con un bello deus-ex-machina (ma non devono aver letto bene la pagina di wikipedia, perchè quello da loro architettato non può neanche essere definito così: in LOST non c'è una risoluzione e una chiusura, ma solo la chiusura) e lasciare al pubblico la libertà di darsi le risposte che meglio crede.
Con una simile uscita di scena, si potrebbe anche capire perchè hanno ricevuto molteplici lettere contenenti minacce di morte.
Tirando le somme: che si può dire di LOST?
Molto probabilmente, come altri l'hanno definita, è effettivamente "la miglior serie peggio rovinata" della storia della tv. I presupposti c'erano tutti per farne un capolavoro e, per un certo periodo di tempo, lo è anche stato. Difficile anche dire cosa non abbia funzionato se non si era all'interno del team creativo. Se ne possono solo giudicare, di volta in volta, gli esiti, ma non comprenderne le cause. Mancanza di pianificazione dall'inizio? Cambio di rotta in corsa? Pressioni dall'alto per l'introduzione della tematica religiosa (non dimentichiamoci che anche Battlestar Galactica termina nello stesso periodo e anch'essa soffra di una certa deriva mistica nell'ultima stagione)? Semplicemente pessimi sceneggiatori/produttori?
Forse un po' dell'uno e un po' dell'altro. Di certo la prima e la seconda stagione di LOST rimangono dei gioielli che bisognerebbe consigliare a tutti di vedere. L'unico problema è la dipendenza che potrebbero dare. Perchè se poi si continua la visione fino alla fine, si potrebbe perdere il saluto della persona a cui era rivolto il consiglio.
lunedì 26 novembre 2012
John Varley - "Titano"
Autore: John Varley
Titolo: "Titano"
Edizione: Mondadori - Urania n° 839
Anno: 1980
Sinceramente, tra i vari titoli degni di nota e appartenenti a quella che ormai viene considerata come un'epoca d'oro per Urania e per la fantascienza in Italia in generale (quantomeno sotto il profilo della quantità di titoli in circolazione), "Titano" di John Varley è uno di quelli che mi ha convinto di meno.
Forse il motivo principale è che, al contrario di altri, questo titolo non è invecchiato troppo bene. Dopo un iniziale prologo fantascientifico, quasi hard-sf (un gruppo di ricerca investiga sulle lune di Saturno), l'evoluzione diviene quasi fantasy. Tra descrizioni troppo lunghe e a tratti confusionarie e noiose, il mondo all'interno di "Nemi" è estremamente vario e curioso, così come la flora e la fauna, quasi si volesse creare il più eterogeneo degli habitat e degli sfondi, così che fosse adatto alle più disparate avventure. E in effetti è su questo che ci si concentra: su incontri con angeli, centauri, scalate incredibili, fino al più classico degli incontri con la mente dietro a tutto (che sa tanto, ma proprio tanto, di Mago di Oz).
La spiegazione finale, inoltre, spiega sì e no, nel senso che tutto viene gestito come una sorta di deus-ex-machina: le cose son così perchè son così, punto e basta. Le aggiunge, poi, servono solo ad aprire il campo per gli inevitabili seguiti.
Un libro, quindi, interessante se preso come mero passatempo e romanzo d'avventura (per quanto, come si diceva, di stampo un po' vecchiotto), ma non all'altezza della nomea di "capolavoro della fantascienza" quale viene spesso descritto.
Titolo: "Titano"
Edizione: Mondadori - Urania n° 839
Anno: 1980
Sinceramente, tra i vari titoli degni di nota e appartenenti a quella che ormai viene considerata come un'epoca d'oro per Urania e per la fantascienza in Italia in generale (quantomeno sotto il profilo della quantità di titoli in circolazione), "Titano" di John Varley è uno di quelli che mi ha convinto di meno.
Forse il motivo principale è che, al contrario di altri, questo titolo non è invecchiato troppo bene. Dopo un iniziale prologo fantascientifico, quasi hard-sf (un gruppo di ricerca investiga sulle lune di Saturno), l'evoluzione diviene quasi fantasy. Tra descrizioni troppo lunghe e a tratti confusionarie e noiose, il mondo all'interno di "Nemi" è estremamente vario e curioso, così come la flora e la fauna, quasi si volesse creare il più eterogeneo degli habitat e degli sfondi, così che fosse adatto alle più disparate avventure. E in effetti è su questo che ci si concentra: su incontri con angeli, centauri, scalate incredibili, fino al più classico degli incontri con la mente dietro a tutto (che sa tanto, ma proprio tanto, di Mago di Oz).
La spiegazione finale, inoltre, spiega sì e no, nel senso che tutto viene gestito come una sorta di deus-ex-machina: le cose son così perchè son così, punto e basta. Le aggiunge, poi, servono solo ad aprire il campo per gli inevitabili seguiti.
Un libro, quindi, interessante se preso come mero passatempo e romanzo d'avventura (per quanto, come si diceva, di stampo un po' vecchiotto), ma non all'altezza della nomea di "capolavoro della fantascienza" quale viene spesso descritto.
martedì 6 novembre 2012
Dean R. Koontz - "Phantoms!"
Autore: Dean R. Koontz
Titolo: "Phantoms!"
Edizione: Mondadori - Urania Speciale n° 1006
Anno: 1985
Come sempre Koontz si conferma scrittore dal ritmo incalzante, capace di avvincere il lettore con una tensione narrativa che ha pochi rivali. Per una volta, inoltre, il finale non risulta essere una netta caduta di stile rispetto al resto dell'intreccio.
Dopo aver letto un libro come questo, però, sorge spontanea una punta di amarezza al constatare su cosa si sia concentrata, ormai, la narrativa di Koontz. Visti i risultati di cui si è potuto fregiare nel corso dei primi anni, romanzi come questo "Phantoms", ma anche "Mostri", "Mezzanotte" o "Lampi", non si può che rimpiangere la produzione più horror di questo autore. Non che i suoi libri successivi siano mediocri, quando uno sa scrivere come Koontz, diventa facile farsi leggere qualsiasi cosa si pubblichi, però dispiace constatare come si sia perso uno dei migliori scrittori puramente horror degli ultimi anni. Soprattutto perchè da nome di punta del genere, si è tramutato in un uno fra i tanti che scrivono thriller. Magari lui ci avrà guadagnato in numero di lettori (ma non credo di fan) e, quindi, in soldi in banca, l'horror ha perso un autore che aveva qualcosa di diverso, di originale e di qualità da dire.
Titolo: "Phantoms!"
Edizione: Mondadori - Urania Speciale n° 1006
Anno: 1985
Come sempre Koontz si conferma scrittore dal ritmo incalzante, capace di avvincere il lettore con una tensione narrativa che ha pochi rivali. Per una volta, inoltre, il finale non risulta essere una netta caduta di stile rispetto al resto dell'intreccio.
Dopo aver letto un libro come questo, però, sorge spontanea una punta di amarezza al constatare su cosa si sia concentrata, ormai, la narrativa di Koontz. Visti i risultati di cui si è potuto fregiare nel corso dei primi anni, romanzi come questo "Phantoms", ma anche "Mostri", "Mezzanotte" o "Lampi", non si può che rimpiangere la produzione più horror di questo autore. Non che i suoi libri successivi siano mediocri, quando uno sa scrivere come Koontz, diventa facile farsi leggere qualsiasi cosa si pubblichi, però dispiace constatare come si sia perso uno dei migliori scrittori puramente horror degli ultimi anni. Soprattutto perchè da nome di punta del genere, si è tramutato in un uno fra i tanti che scrivono thriller. Magari lui ci avrà guadagnato in numero di lettori (ma non credo di fan) e, quindi, in soldi in banca, l'horror ha perso un autore che aveva qualcosa di diverso, di originale e di qualità da dire.
mercoledì 24 ottobre 2012
Preston & Child - "La Danza della Morte"
Autore: Douglas Preston, Lincoln Child
Titolo: "La Danza della Morte"
Edizione: Rizzoli - BUR
Anno: 2008
Preston e Child si riconfermano, per l'ennesima volta, ottimo scrittori d'intrattenimento. Questo "La Danza della Morte" (secondo capitolo di una sottotrama conosciuta dai fan come trilogia di Diogenes) dimostra una volta in più, se mai ce ne fosse bisogno, che i due romanzieri americani volano una spanna sopra a tanti autori di best-seller più o meno noti.
La trama, come sempre, è intricata e piena di svolte e colpi di scena. I personaggi, soprattutto quelli che i lettori hanno già imparato a conoscere ed apprezzare nei precedenti romanzi scritti dalla coppia, sono come sempre vividi e tridimensionali. Seppur, in alcuni casi, magari un po' stereotipati, risultano immediatamente simpatici e ci si trova, volenti o nolenti, a parteggiare per loro.
In questo nuovo capitolo delle avventure dell'agente speciale Pendergast, inoltre, facciamo finalmente la conoscenza, faccia a faccia, di suo Diogenes. Figura ammantata di mistero, sorta di entità malefica che aleggiava di sottofondo già da un paio di volumi, il fratello di Aloysius fa qui la sua entrata in scena. E si tratta di un'apparizione trionfale.
Buona parte del libro è basato su una sorta di scontro di menti, il bene contro il male, in un elaborato intreccio di mosse e contromosse tra due cervelli geniali.
Naturalmente la prima regola è accordare una buona dose di sospensione dell'incredulità, dopo di ché, però, ci si può buttare a capofitto nella lettura. Preston e Child non vinceranno mai il Nobel per la letteratura, né passeranno alla storia come gli scrittori più venduti o più letti della storia. I loro libri non hanno velleità d'artista, ma solo quello di esser l'opera di onesti mestieranti. Ciononostante, i libri dell'agente speciale Pendergast (e questo in particolare), sono in grado di riservare qualche ora di una più che piacevole compagnia, unita a dell'intrattenimento di qualità. E scusate se è poco.
Titolo: "La Danza della Morte"
Edizione: Rizzoli - BUR
Anno: 2008
Preston e Child si riconfermano, per l'ennesima volta, ottimo scrittori d'intrattenimento. Questo "La Danza della Morte" (secondo capitolo di una sottotrama conosciuta dai fan come trilogia di Diogenes) dimostra una volta in più, se mai ce ne fosse bisogno, che i due romanzieri americani volano una spanna sopra a tanti autori di best-seller più o meno noti.
La trama, come sempre, è intricata e piena di svolte e colpi di scena. I personaggi, soprattutto quelli che i lettori hanno già imparato a conoscere ed apprezzare nei precedenti romanzi scritti dalla coppia, sono come sempre vividi e tridimensionali. Seppur, in alcuni casi, magari un po' stereotipati, risultano immediatamente simpatici e ci si trova, volenti o nolenti, a parteggiare per loro.
In questo nuovo capitolo delle avventure dell'agente speciale Pendergast, inoltre, facciamo finalmente la conoscenza, faccia a faccia, di suo Diogenes. Figura ammantata di mistero, sorta di entità malefica che aleggiava di sottofondo già da un paio di volumi, il fratello di Aloysius fa qui la sua entrata in scena. E si tratta di un'apparizione trionfale.
Buona parte del libro è basato su una sorta di scontro di menti, il bene contro il male, in un elaborato intreccio di mosse e contromosse tra due cervelli geniali.
Naturalmente la prima regola è accordare una buona dose di sospensione dell'incredulità, dopo di ché, però, ci si può buttare a capofitto nella lettura. Preston e Child non vinceranno mai il Nobel per la letteratura, né passeranno alla storia come gli scrittori più venduti o più letti della storia. I loro libri non hanno velleità d'artista, ma solo quello di esser l'opera di onesti mestieranti. Ciononostante, i libri dell'agente speciale Pendergast (e questo in particolare), sono in grado di riservare qualche ora di una più che piacevole compagnia, unita a dell'intrattenimento di qualità. E scusate se è poco.
mercoledì 17 ottobre 2012
Valerio Evangelisti - "Rex Tremendae Maiestatis"
Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Rex Tremendae Maiestatis"
Edizione: Mondadori - Strade Blu Dark
Anno: 2010
Decimo capitolo del ciclo di Nicolas Eymerich, ma anche ultimo capitolo della saga dell'inquisitore.
Ammetto di essere molto legato a questi libri e a questi personaggi, per cui è difficile riuscire a rimanere del tutto oggettivi scrivendo queste parole. D'altra parte è altrettanto difficile rimanere indifferenti di fronte a questa lettura e non pensare a questo ultimo romanzo come al capolavoro dello scrittore bolognese, capace di essere degna conclusione e, al contempo, nuovo inizio del ciclo.
Ma andiamo con ordine.
Inutile sforzarsi di dare una infarinatura della trama, chi ha mai preso in mano uno dei romanzi del ciclo di Eymerich, sa che le vicende non sono quasi mai lineari, ma il frutto di avvenimenti che accadono in tempi e luoghi diversi, distanti migliaia di chilometri o centinaia (se non migliaia) di anni. Eppure questi fatti hanno una eco capace di influenzare, istantaneamente, gli altri, spesso con un ordine che potrebbe apparire a-cronologico. Cercare, quindi, di esplicare in poche parole la storia alla base del romanzo rischierebbe di risultare come una sequenza di spoiler del tutto inutili.
Meglio, piuttosto, concentrarsi sugli argomenti su cui si basa il libro e parlare di quelli. Già, perchè "Rex Tremendae Maiestatis" non è solo una delle indagini più interessanti e complicate dell'inquisitore, ma anche una sorta di libretto delle istruzioni per meglio comprendere tutti gli altri volumi della saga. Proprio in questo sta la grandezza di questo romanzo, nel fornire una sorta di nuova chiave di lettura per tutti i precedenti capitoli del ciclo. Una conclusione, quindi, ma anche un nuovo inizio, una nuova luce attraverso la quale leggere e rileggere tutti i libri (magari nel corretto ordine cronologico degli avvenimenti e non quello in cui son stati scritti), in un vero e proprio serpente che si morde la coda: l'ouroboros (non a caso più volte citato nel romanzo), simbolo di ciclico ed eterno alternarsi di inizio e fine, alfa e omega.
Le qualità, naturalmente, non si esauriscono qui, ma meglio lasciare al lettore il piacere e l'emozione di scoprirle da solo.
Al termine della lettura, però, rimane pur sempre un piccolo rimpianto, quello di aver detto addio a un personaggio unico che, nel bene e nel male, avevamo imparato ad apprezzare e, perchè no, ad amare. Inutile cercare di nascondere il magone, come quando si saluta un vecchio amico, sapendo che non tornerà. Si può solo cercare di mitigarlo riprendendo in mano "Nicolas Eymerich, Inquisitore".
Titolo: "Rex Tremendae Maiestatis"
Edizione: Mondadori - Strade Blu Dark
Anno: 2010
Decimo capitolo del ciclo di Nicolas Eymerich, ma anche ultimo capitolo della saga dell'inquisitore.
Ammetto di essere molto legato a questi libri e a questi personaggi, per cui è difficile riuscire a rimanere del tutto oggettivi scrivendo queste parole. D'altra parte è altrettanto difficile rimanere indifferenti di fronte a questa lettura e non pensare a questo ultimo romanzo come al capolavoro dello scrittore bolognese, capace di essere degna conclusione e, al contempo, nuovo inizio del ciclo.
Ma andiamo con ordine.
Inutile sforzarsi di dare una infarinatura della trama, chi ha mai preso in mano uno dei romanzi del ciclo di Eymerich, sa che le vicende non sono quasi mai lineari, ma il frutto di avvenimenti che accadono in tempi e luoghi diversi, distanti migliaia di chilometri o centinaia (se non migliaia) di anni. Eppure questi fatti hanno una eco capace di influenzare, istantaneamente, gli altri, spesso con un ordine che potrebbe apparire a-cronologico. Cercare, quindi, di esplicare in poche parole la storia alla base del romanzo rischierebbe di risultare come una sequenza di spoiler del tutto inutili.
Meglio, piuttosto, concentrarsi sugli argomenti su cui si basa il libro e parlare di quelli. Già, perchè "Rex Tremendae Maiestatis" non è solo una delle indagini più interessanti e complicate dell'inquisitore, ma anche una sorta di libretto delle istruzioni per meglio comprendere tutti gli altri volumi della saga. Proprio in questo sta la grandezza di questo romanzo, nel fornire una sorta di nuova chiave di lettura per tutti i precedenti capitoli del ciclo. Una conclusione, quindi, ma anche un nuovo inizio, una nuova luce attraverso la quale leggere e rileggere tutti i libri (magari nel corretto ordine cronologico degli avvenimenti e non quello in cui son stati scritti), in un vero e proprio serpente che si morde la coda: l'ouroboros (non a caso più volte citato nel romanzo), simbolo di ciclico ed eterno alternarsi di inizio e fine, alfa e omega.
Le qualità, naturalmente, non si esauriscono qui, ma meglio lasciare al lettore il piacere e l'emozione di scoprirle da solo.
Al termine della lettura, però, rimane pur sempre un piccolo rimpianto, quello di aver detto addio a un personaggio unico che, nel bene e nel male, avevamo imparato ad apprezzare e, perchè no, ad amare. Inutile cercare di nascondere il magone, come quando si saluta un vecchio amico, sapendo che non tornerà. Si può solo cercare di mitigarlo riprendendo in mano "Nicolas Eymerich, Inquisitore".
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