Autore: Douglas Preston & Lincoln Child
Titolo: Il Libro dei Morti
Edizione: Sonzogno
Anno: 2007
Terzo e ultimo capitolo della "trilogia Pendergast" (come l'hanno chiamata gli autori stessi) e incentrata sullo scontro eterno tra il protagonista e sua fratello Dyogenes.
Chi legge Preston & Child sa che quando si inizia un loro libro è difficile staccarsene, ancor più se è uno dei romanzi dell'agente speciale. Questa trilogia, e soprattutto quest'ultimo capitolo, però, spiccano ulteriormente all'attenzione per la capacità di coinvolgere il lettore. Ogni volume è un turbine di eventi, intrighi, una vera e propria partita a scacchi di altissimo livello con mosse e contromosse spesso imprevedibili.
Emerge, inoltre, sempre più inconfondibile, come l'ispirazione maggiore per i personaggi di Aloysius e Dyogenes sono stati Sherlock Holmes e Moriarty. Due geni assoluti, dalla mente brillante e con conoscenze e cultura superiori alla media, l'uno al servizio del bene, l'altro del male e votato esclusivamente alla vendetta. Dai romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, inoltre, viene presa a prestito anche la passione per i travestimenti, sempre eccezionali, che sia in questo "Il Libro dei Morti" che ne precedente "La Danza della Morte", hanno un ruolo di primissimo piano.
Giunti all'ennesimo romanzo della copia, inoltre, tutti i personaggi di contorno son ormai quasi come vecchi amici. Scorrendo le pagine e seguendo le azioni, i comportamenti, dei vari soggetti, si ha una strana e confortante sensazione di familiarità. E' la dimostrazione della capacità degli autori di creare personaggi credibili, sufficientemente sfaccettati per essere realistici, ma al contempo comprensibili. Laddove qualche clichè è presente, qualche stereotipo è ripresentato, la simpatia che il lettore prova è sicuramente sufficiente a fargli chiudere volentieri un occhio.
Anche perchè non c'è davvero tempo per soffermarcisi sopra. La storia corre letteralmente a mille all'ora, rutilante e avvincente come forse mai prima. Un romanzo che certamente non passerà alla storia della letteratura, ma che sarà in grado di allietare gli appassionati, così come i lettori occasionali. Prima di prendere in mano questo tomo, però, forse sarebbe meglio dare un'occhiata al precedente "La Danza della Morte". Ma bisogna ammettere che per capire alcune sottigliezze e alcune sfumature bisognerebbe davvero partire dall'inizio. Una fatica solo sulla carta, di certo capace di dare diverse soddisfazioni.
recensioni a mente libera di libri, fumetti, manga, graphic novel e, perchè no, magari anche qualche film e telefilm...
Avvertenze
- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -
venerdì 17 maggio 2013
venerdì 10 maggio 2013
Roberto Costantini - "Tu Sei il Male"
Autore: Roberto Costantini
Titolo: "Tu Sei il Male"
Edizione: Marsilio - Vintage
Anno: 2011
Marsilio ha avuto occhio (e anche un po' di fortuna) ad accaparrarsi, qualche tempo fa, uno dei fenomeni di letteratura gialla di maggiore successo degli ultimi anni. Ovviamente ci riferiamo a Stieg Larsson e alla sua trilogia Millennium. Oggi Marsilio ci riprova, questa volta con un autore di casa nostra al suo esordio letterario.
Come sempre le quarte di copertina parlano di capolavoro e di romanzo che è un fenomeno prima ancora di uscire, già opzionato per il cinema e per la pubblicazione in mille mila paesi. Per una volta, però, non ce la sentiamo di condannarle a prescindere.
Questo perchè il libro di Costantini, "Tu Sei il Male", è bello sul serio... e anche tanto.
Certo, la prima parte del romanzo è un po' ostica. Non per lo scrivere, sempre fluente, o per gli avvenimenti, narrati con un ritmo e una capacità che appare quasi innaturale in un esordiente. Piuttosto per il protagonista, l'ispettore Michele Balistreri, che l'autore sembra quasi far di tutto per farci odiare e per render antipatico. Quantomeno meritevole di una bella lavata di capo che lo rimetta un po' in riga e gli faccia abbassare la cresta. Come dicevamo, però, l'intreccio e lo stile compensano abbondantemente questi fattori e costringono, letteralmente, il lettore ad andare avanti nonostante tutto.
Articolandosi in una vicenda che si snoda attraverso gli anni, ben presto, però, il giovane Balistreri, lascia il posto a vecchio Balistreri. Un personaggio quasi del tutto agli antipodi, tanto da ispirare addirittura pietà in più di un momento.
La storia prende, intriga, fornisce false piste, semina piccoli indizi lungo il suo incedere e avvince il lettore nelle sue spire. Una volta che si comincia a leggere è ben difficile riuscire a staccarsi (anche se è notte tarda e la mattina dopo bisogna alzarsi presto). Questo è certamente uno dei meriti maggiori del libro, che speriamo davvero Costantini riesca a replicare anche nelle sue successive opere.
Un altro dei punti di forza, forse il più importante, è la personalità, la psicologia e il background esperienziale di Balistreri. Quella del protagonista è una vicenda complessa, una storia personale che l'autore ha evidentemente costruito nei minimi particolari e che, molto probabilmente, è destinata a fornire lo spunto anche per i libri che seguiranno a comporre una trilogia. Speriamo davvero che sia così, perchè al netto della trama del singolo romanzo (gialla e intricata al punto giusto, del tutto godibile anche a sé stante), la personalità di Balistreri è un tassello importante e interessante che ci viene svelato poco a poco. Se Costantini riuscisse, con questa trilogia, a costruire pezzo per pezzo tutta la psicologia del protagonista, mostrandoci i fatti salienti che l'hanno portata a maturare, evolvere, modificarsi col passare del tempo, sarebbe certamente il valore aggiunto assoluto di questa sua opera letteraria.
Speriamo davvero che non ci deluda, perchè di certo lo seguiremo attentamente.
Titolo: "Tu Sei il Male"
Edizione: Marsilio - Vintage
Anno: 2011
Marsilio ha avuto occhio (e anche un po' di fortuna) ad accaparrarsi, qualche tempo fa, uno dei fenomeni di letteratura gialla di maggiore successo degli ultimi anni. Ovviamente ci riferiamo a Stieg Larsson e alla sua trilogia Millennium. Oggi Marsilio ci riprova, questa volta con un autore di casa nostra al suo esordio letterario.
Come sempre le quarte di copertina parlano di capolavoro e di romanzo che è un fenomeno prima ancora di uscire, già opzionato per il cinema e per la pubblicazione in mille mila paesi. Per una volta, però, non ce la sentiamo di condannarle a prescindere.
Questo perchè il libro di Costantini, "Tu Sei il Male", è bello sul serio... e anche tanto.
Certo, la prima parte del romanzo è un po' ostica. Non per lo scrivere, sempre fluente, o per gli avvenimenti, narrati con un ritmo e una capacità che appare quasi innaturale in un esordiente. Piuttosto per il protagonista, l'ispettore Michele Balistreri, che l'autore sembra quasi far di tutto per farci odiare e per render antipatico. Quantomeno meritevole di una bella lavata di capo che lo rimetta un po' in riga e gli faccia abbassare la cresta. Come dicevamo, però, l'intreccio e lo stile compensano abbondantemente questi fattori e costringono, letteralmente, il lettore ad andare avanti nonostante tutto.
Articolandosi in una vicenda che si snoda attraverso gli anni, ben presto, però, il giovane Balistreri, lascia il posto a vecchio Balistreri. Un personaggio quasi del tutto agli antipodi, tanto da ispirare addirittura pietà in più di un momento.
La storia prende, intriga, fornisce false piste, semina piccoli indizi lungo il suo incedere e avvince il lettore nelle sue spire. Una volta che si comincia a leggere è ben difficile riuscire a staccarsi (anche se è notte tarda e la mattina dopo bisogna alzarsi presto). Questo è certamente uno dei meriti maggiori del libro, che speriamo davvero Costantini riesca a replicare anche nelle sue successive opere.
Un altro dei punti di forza, forse il più importante, è la personalità, la psicologia e il background esperienziale di Balistreri. Quella del protagonista è una vicenda complessa, una storia personale che l'autore ha evidentemente costruito nei minimi particolari e che, molto probabilmente, è destinata a fornire lo spunto anche per i libri che seguiranno a comporre una trilogia. Speriamo davvero che sia così, perchè al netto della trama del singolo romanzo (gialla e intricata al punto giusto, del tutto godibile anche a sé stante), la personalità di Balistreri è un tassello importante e interessante che ci viene svelato poco a poco. Se Costantini riuscisse, con questa trilogia, a costruire pezzo per pezzo tutta la psicologia del protagonista, mostrandoci i fatti salienti che l'hanno portata a maturare, evolvere, modificarsi col passare del tempo, sarebbe certamente il valore aggiunto assoluto di questa sua opera letteraria.
Speriamo davvero che non ci deluda, perchè di certo lo seguiremo attentamente.
domenica 14 aprile 2013
Dan Simmons - "Endymion"
Autore: Dan Simmons
Titolo: "Endymion"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
Terzo capitolo della saga dei "Canti di Hyperion". Quasi duecento anni standard sono passati dal finale de "La Caduta di Hyperion" e molti son stati i cambiamenti nell'universo e sui pianeti che facevano parte dell'Egemonia. Come spesso accade, però, le cose non son cambiate in meglio.
La Chiesa, infatti, ha perfezionato la resurrezione tramite il crucimorfo e ora ha, di fatto, sostituito l'Egemonia nel controllo dei pianeti.
Quando inizia il romanzo manca ormai poco tempo alla riapertura delle Tombe del Tempo, dalle quali dovrebbe emergere Aenea, la bambina che vi era entrata al termine del precedente libro. Per lei non saran passati che pochi secondi, ma la Chiesa ha avuto tutto il tempo per calcolare il momento esatto del suo ritorno e prepararle una accoglienza in grande stile.
L'inizio del romanzo, quindi, è carico di attesa e di pathos, mentre facciamo conoscenza con Raul Endymion (protagonista e narratore delle vicende) e il suo confrontarsi con quella che appare come una missione impossibile: salvare Aenea. Non temete, non vi sveleremo cosa succederà, ma di fatto subito dopo questa prima parte molto coinvolgente ed emozionante, il libro ha un netto calo.
La narrazione, infatti, a un certo punto tende ad appiattirsi verso una space-opera anche piuttosto banale e scontata, con i protagonisti che passano da un pianeta all'altro in sequenza. Su ognuno, essi vivono piccole avventure, affrontano pericoli, superano prove e difficoltà e si confrontano, di volta in volta, con le caratteristiche diverse di clima, temperatura e gravità.
Più interessante, piuttosto, è invece seguire ciò che accade al Padre Capitano De Soya e al suo gruppo di Guardie Svizzere, cioè gli incaricati dalla Chiesa di trovare e catturare Aenea. Sono questi i capitoli che riescono a destare un po' più l'attenzione del lettore, anche grazie agli ovvi intrighi che strisciano, sotterranei, anche all'interno del Vaticano. Un po' poco, quindi, tenere in piedi l'intero libro che, infatti, risulta nettamente inferiore ai due che l'hanno preceduto.
Le cose si muovono, però, verso la fine. Finalmente alcuni fili molto esili che erano stati appena accennati lungo tutto il corso del volume, vengono tirati e sembrano condurre a qualche svolta. Si torna a respirare di nuovo, anche se per poco, quell'afflato cosmico che aveva contraddistinto e reso (almeno al sottoscritto) molto gradito il secondo romanzo del ciclo. Non è più dei piccoli avvenimenti di alcuni singoli personaggi che si parla, ma di decisioni che coinvolgono interi popoli, pianeti o sistemi solari. Si scoprono diverse cose, ma si pongono anche ulteriori domande.
(Una, in particolare, credo assillerà il sottoscritto finchè non prenderà in mano "Il Risveglio di Endymion" e cioè: Frank Lloyd Wright? Perchè Frank Lloyd Wright???)
Arrivati in fondo, quindi, non rimane che guardare indietro e trarre le conclusioni.
"Endymion", in definitiva, appare solo come un, seppur lungo, preludio. Diversi semi vengono piantati e ben poco viene portato davvero a termine. Tutto il resto è un mero riempitivo. Sicuramente fantasioso, scritto benissimo (ma non potevamo aspettarci altro da Simmons) e a tratti avvincente, ma tutto sommato solo un riempitivo, per quanto di qualità molto alta. All'interno di una saga è difficile che tutti i capitoli siano sullo stesso piano ed è, spesso, inevitabile che almeno uno soffra un po' una caduta di tono rispetto agli altri, come sembrerebbe essere questo il caso. Certo, una caduta di tono di questo tipo è comunque diverse spanne al di sopra di quanto alcuni potranno mai sperare di scrivere, ma attendiamo di aver finito anche l'ultimo volume prima di esprimere un ultimo e definitivo giudizio. Oltre che per esplicitare una riflessione generale sui messaggi che questa saga veicola e che, a dirla tutta, sembrano l'esatto opposto di quelli che sono i pensieri attuali del suo autore.
Titolo: "Endymion"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
Terzo capitolo della saga dei "Canti di Hyperion". Quasi duecento anni standard sono passati dal finale de "La Caduta di Hyperion" e molti son stati i cambiamenti nell'universo e sui pianeti che facevano parte dell'Egemonia. Come spesso accade, però, le cose non son cambiate in meglio.
La Chiesa, infatti, ha perfezionato la resurrezione tramite il crucimorfo e ora ha, di fatto, sostituito l'Egemonia nel controllo dei pianeti.
Quando inizia il romanzo manca ormai poco tempo alla riapertura delle Tombe del Tempo, dalle quali dovrebbe emergere Aenea, la bambina che vi era entrata al termine del precedente libro. Per lei non saran passati che pochi secondi, ma la Chiesa ha avuto tutto il tempo per calcolare il momento esatto del suo ritorno e prepararle una accoglienza in grande stile.
L'inizio del romanzo, quindi, è carico di attesa e di pathos, mentre facciamo conoscenza con Raul Endymion (protagonista e narratore delle vicende) e il suo confrontarsi con quella che appare come una missione impossibile: salvare Aenea. Non temete, non vi sveleremo cosa succederà, ma di fatto subito dopo questa prima parte molto coinvolgente ed emozionante, il libro ha un netto calo.
La narrazione, infatti, a un certo punto tende ad appiattirsi verso una space-opera anche piuttosto banale e scontata, con i protagonisti che passano da un pianeta all'altro in sequenza. Su ognuno, essi vivono piccole avventure, affrontano pericoli, superano prove e difficoltà e si confrontano, di volta in volta, con le caratteristiche diverse di clima, temperatura e gravità.
Più interessante, piuttosto, è invece seguire ciò che accade al Padre Capitano De Soya e al suo gruppo di Guardie Svizzere, cioè gli incaricati dalla Chiesa di trovare e catturare Aenea. Sono questi i capitoli che riescono a destare un po' più l'attenzione del lettore, anche grazie agli ovvi intrighi che strisciano, sotterranei, anche all'interno del Vaticano. Un po' poco, quindi, tenere in piedi l'intero libro che, infatti, risulta nettamente inferiore ai due che l'hanno preceduto.
Le cose si muovono, però, verso la fine. Finalmente alcuni fili molto esili che erano stati appena accennati lungo tutto il corso del volume, vengono tirati e sembrano condurre a qualche svolta. Si torna a respirare di nuovo, anche se per poco, quell'afflato cosmico che aveva contraddistinto e reso (almeno al sottoscritto) molto gradito il secondo romanzo del ciclo. Non è più dei piccoli avvenimenti di alcuni singoli personaggi che si parla, ma di decisioni che coinvolgono interi popoli, pianeti o sistemi solari. Si scoprono diverse cose, ma si pongono anche ulteriori domande.
(Una, in particolare, credo assillerà il sottoscritto finchè non prenderà in mano "Il Risveglio di Endymion" e cioè: Frank Lloyd Wright? Perchè Frank Lloyd Wright???)
Arrivati in fondo, quindi, non rimane che guardare indietro e trarre le conclusioni.
"Endymion", in definitiva, appare solo come un, seppur lungo, preludio. Diversi semi vengono piantati e ben poco viene portato davvero a termine. Tutto il resto è un mero riempitivo. Sicuramente fantasioso, scritto benissimo (ma non potevamo aspettarci altro da Simmons) e a tratti avvincente, ma tutto sommato solo un riempitivo, per quanto di qualità molto alta. All'interno di una saga è difficile che tutti i capitoli siano sullo stesso piano ed è, spesso, inevitabile che almeno uno soffra un po' una caduta di tono rispetto agli altri, come sembrerebbe essere questo il caso. Certo, una caduta di tono di questo tipo è comunque diverse spanne al di sopra di quanto alcuni potranno mai sperare di scrivere, ma attendiamo di aver finito anche l'ultimo volume prima di esprimere un ultimo e definitivo giudizio. Oltre che per esplicitare una riflessione generale sui messaggi che questa saga veicola e che, a dirla tutta, sembrano l'esatto opposto di quelli che sono i pensieri attuali del suo autore.
mercoledì 6 marzo 2013
FRINGE
Quando J. J. Abrams lasciò LOST, per passare ad un’altra società cinematografica, la serie dei sopravvissuti al volo Oceanic 815 era ancora a livelli molto alti di apprezzamento da parte di pubblico e critica. L’abbandono del mentore, quindi, diede vita a sentimenti contrapposti: da una parte chi si sentiva tradito e temeva che LOST avrebbe avuto un crollo qualitativo (cosa che, in effetti, avvenne… ma non possiamo neanche giurare che con Abrams ancora al suo posto le cose sarebbero andate diversamente); dall’altra chi era già in fibrillazione per la nuova serie a cui avrebbe dato vita.
Il risultato di questo “cambio di casacca” fu, per l’appunto, il serial di cui ci occupiamo in questa recensione: FRINGE.
Stagione 1
Le attese erano alte, altissime. Forse proprio per questo l’inizio non è stato brillantissimo e dal successo immediato. Il motivo è presto detto: i primi 4 o 5 episodi riproducono sempre lo stesso medesimo plot narrativo.
Evento strano/inusuale/fantascientifico – indagine dell’FBI – il professore Walter Bishop ricorda di aver, forse, lavorato su qualcosa di simile anni e anni prima – ritrovamento degli appunti riguardanti l’esperimento – risoluzione (o simili) del caso.
I personaggi son simpatici e sembrano funzionare, gli attori bravi (Noble è favoloso e Jackson sorprende in positivo, soprattutto chi aveva delle riserve perché se lo ricordava in Dawson’s Creek), i casi sono molto “weird”, come la serie richiede, ma tutto questo non sembra essere sufficiente. Già dopo un paio di episodi, infatti, ci si comincia a chiedere se si tratta di un serial a episodi autoconclusivi (alla Signora in Giallo o alla Law & Order) o se ci sarà una sottotrama, come tutti sperano. Dopo un altro paio di puntate, il plot, ripetuto e fatto con lo stampino, comincia già a mostrare la corda e a stancare.
Per fortuna della serie, la maggior parte del pubblico ha tenuto duro ed è a questo punto che le cose migliorano progressivamente. La sottotrama emerge e lo fa dando un motivo preciso e sensato al fatto che i primi episodi sembravano tutti uguali, tanto che ci si ritrova a pensare che non poteva che essere così. Di puntata in puntata le storie si fanno sempre più legate le une alle altre e, anche se vi è una certa propensione a legare ogni episodio a un caso ben preciso, la sottotrama rimane sempre in primo piano. Sembra la perfetta via di mezzo tra un serial come LOST, in cui se perdevi una puntata eri finito, e uno come X-Files, probabilmente una delle principali fondi di ispirazione per J. J. Abrams nello scrivere FRINGE, visto che viene spesse volte citato.
Connubio perfetto anche da un altro punto di vista: a una prima occhiata, infatti, non sembra ci sia il continuo e pedissequo ricorso a misteri sempre più grandi e insolubili per tenere alta l’attenzione del pubblico. Certo, ci si domanda chi vi sia dietro a certi fatti, se vi sia una regia generale o se siano casi separati, ma quasi fin dall’inizio viene fatto un panorama chiaro e semplice del mondo in cui ci si muove e delle leggi che lo regolano.
Non tutto è ancora perfetto, sembra quasi che certi ingranaggi siano ancora un po’ farraginosi e necessitino di un po’ più di rodaggio, ma tutta la stagione è un crescendo e il finale, assolutamente da brividi (per gli americani ancor di più che per noi), lascia tutti in attesa del proseguo.
Stagione 2
Non accade spesso, ma talvolta succede che la seconda stagione di un serial sia addirittura migliore della prima. A FRINGE accade esattamente questo, perché riparte dal livello alto, molto alto, del finale della prima e da lì punta andare ancora più su, riuscendovi.
Soprattutto emerge, e non poteva essere altrimenti, in maniera sempre più prepotente il personaggio del professore Bishop, merito certamente delle capacità recitative di un John Noble in alcune puntate davvero in stato di grazia. Da personaggio quasi secondario, a cui si chiedeva un parere a seconda dell’occasione e sufficientemente bislacco per strappare un sorriso, Walter Bishop diviene sempre più protagonista e perno di tutta la serie.
In particolare, in questa seconda stagione, si infittiscono sempre più i rapporti con “l’altro lato”, divenendo ben presto una costante. Facciamo anche la conoscenza con il Walter Bishop dell’altra parte, lì divenuto segretario della difesa, uomo potentissimo e senza scrupoli, animato dall’odio e dalla sete di vendetta. Noble, al netto del trucco, riesce a dare ai due personaggi una impostazione così diversa, nella gestualità, nell’atteggiamento, nel modo di porsi e di camminare, che si stenta a credere si tratti dello stesso attore.
Nel frattempo la trama evolve e sposta, leggermente, il punto di fuoco rispetto alla prima stagione. Si tratta di un processo graduale che dà pienamente allo spettatore l’impressione che non si tratti di qualcosa di casuale o inventato lì per lì, ma pianificato fin dall’inizio. Insomma, gli scrittori sembrano aver avuto chiaro fin dall’inizio dove volevano andare a parare e che non stiano procedendo a tentoni (come, invece, in contemporanea appare sempre più evidente in LOST).
Proprio i paragoni con LOST diventano sempre più frequenti e non può essere altrimenti, avendo i due serial lo stesso papà. Forse è questo che fa allontanare qualche spettatore, di certo non la qualità della serie, che sembra migliorare di puntata in puntata. Nonostante questo, evidentemente, qualcuno deve aver fatto un ragionamento tipo: “meglio lasciar finché siamo ad alti livelli, che scottarmi quando tutto precipiterà…”. Discorso, forse, condivisibile solo in parte, visto che la cavalcata di FRINGE non sembra volersi arrestare, fino a un finale, di nuovo, da brividi e al cardiopalma.
Stagione 3
Si riprende, come sempre, là dove avevamo lasciato e l’impressione è che siamo, di nuovo, di fronte a un crescendo. L’idea, brillante, dei primi episodi, è quella di alternare una puntata ambientata nel nostro mondo con una “dall’altro lato”. Già la sigla ci anticipa la realtà: blu di qua, rosso di là. Questo farci vedere il proseguo degli eventi in contemporanea funziona benissimo per tenere alta l’attenzione del pubblico, soprattutto quando la singola puntata termina con un mezzo climax. E’ la stessa tecnica che usano alcuni scrittori di romanzi come Dean R. Koontz o Valerio Evangelisti, se il lettore si appassiona a certi eventi e tu li interrompi sul più bello, vorrà sapere cosa succede dopo, per questo correrà a leggere il capitolo successivo, ma anche quest’ultimo terminerà con un colpo di scena, costringendo di nuovo il lettore a proseguire, avvinghiandolo così in una lettura compulsiva. Cambia il mezzo, ma il sistema e il risultato non cambiano.
L’inizio, dunque, è dei migliori, il proseguo, però, e soprattutto la seconda metà della stagione, invece, cominciano a mostrare qualche incrinatura.
Nulla di particolarmente grave, anche perché arrivati a questo punto l’alchimia che si è creata tra i protagonisti è ottima e si trasmette agli spettatori che provano una genuina simpatia per loro (un po’, come, di nuovo facendo un paragone letterario, si instaura tra lettore e protagonisti dei romanzi). Qui e là qualche puntata forse un po’ troppo autoconclusiva o che si rivela, in fondo, inutile al proseguo della trama principale, c’è e fa un po’ storcere il naso.
Inoltre ci si rende conto che il punto focale della serie si è nuovamente spostato, questa volta, però, in maniera abbastanza netta. Tanto che tutta la stagione appare quasi come una nuova storia e non come il naturale proseguo delle due precedenti. Forse non ce ne si accorge subito durante la visione, ma a bocce ferme, riguardandosi indietro, ci si rende conto che tutta la vicenda, per quanto magari bella e interessante, è una storia a sé stante. L’effetto, inoltre, verrà ulteriormente acuito con la visione della successiva…
Stagione 4
Il finale della terza stagione porta a una riscrittura, vera e propria, di tutto ciò che sapevamo di FRINGE fino a quel momento. Tra citazioni da episodi della prima stagione, vecchi nemici che ritornano e il dover fare i conti con questa nuova “realtà”, i primi episodi scivolano via molto bene. A tutto questo, inoltre, si aggiunge quell’effetto di simpatia, di cui avevamo già parlato, che fa sì che ci si appassioni per la sorte dei protagonisti, anche quando, magari, il plot delle singole puntate non sia nulla di particolarmente originale.
Un fatto, questo, di certo ampiamente previsto dagli sceneggiatori che, infatti, iniziano a dare sempre più spazio e importanza ai rapporti sentimentali tra i membri della “famiglia Bishop”. Una scelta che, per certi versi, non si può certo dire che paghi. Se, infatti, su molti riesce a far presa, altrettanti, se non di più, son quelli che lasciano la serie. L’emorragia di spettatori, infatti, appare quasi inarrestabile, complice (dobbiamo dirlo) anche una programmazione schizofrenica da parte del network che continua a spostare giorno e ora di messa in onda del serial, spesso facendogli saltare una o due settimane senza alcun preavviso. Ovvio che questo non aiuti a fidelizzare lo spettatore, neanche se fossimo in presenza della miglior serie della tv.
Ma torniamo a parlare della stagione. Dopo un inizio contraddistinto da alcuni episodi piuttosto autoconclusivi, che ci mostrano come funzionano le cose, poco a poco riemerge una sottotrama comune. Anche in questa occasione si ha l’impressione che tutta la stagione funzioni come una sorta di storia autoconclusiva, come già nel caso della terza, ma almeno vi è la giustificazione delle condizioni particolari da cui nasce. Il finale, però, è molto bello e riesce a far passare in secondo piano diversi dubbi riguardo alla conduzione della serie.
Proprio questo finale avrebbe potuto essere quello definitivo di FRINGE. La Fox, infatti, in seguito al calo verticale di spettatori, aveva deciso di chiudere la serie e di non produrre la conclusiva quinta stagione. Se fosse stato così, per quanto con l’amaro in bocca di alcuni filoni narrativi lasciati in sospeso, avrebbe anche potuto funzionare, proprio per via della natura piuttosto autoconclusiva che avevano assunto le ultime due stagioni.
Stagione 5
Dopo un lungo tira e molla tra cast, produzione e network, alla fine si giunge alla conclusione di produrre la quinta e definitiva stagione di FRINGE, a patto, però, che sia una stagione “ridotta” di soli 13 episodi. In realtà questa scelta è stata forse la cosa migliore che poteva capitare alla serie.
I nodi ancora da sciogliere non sono molti, ciò nonostante sembra che gli sceneggiatori si mettano d’impegno per complicare senza motivo tutta la situazione. L’incipit è ottimo, con un salto temporale di svariati anni che ci precipita in una realtà del tutto nuova. Da quel momento in poi, però, alcune scelte non appaiono del tutto condivisibili.
Innanzitutto lo spazio sempre più ampio lasciato ai rapporti tra i protagonisti, che ben presto diventano la parte principale delle vicende, mettendo spesso addirittura in ombra il proseguo della storia principale. Se all’inizio aiutano a sentirsi più vicini ai protagonisti, ben presto risultano solo noiosi, prolissi e ripetitivi, tanto da sembrare solo un riempitivo per raggiungere il minutaggio necessario per ogni puntata.
Inoltre, d’accordo porre ostacoli sul cammino dei protagonisti, così come è ovvio che bisogna “inventarsi” qualcosa per rendere ogni episodio degno di essere visto. Bene, quindi, la trovata di una sorta di caccia al tesoro che di puntata in puntata ci dovrebbe portare un passo più vicino alla conclusione di tutta la vicenda. Un po’ meno bene quando si passa, fin troppo facilmente, da: “ogni pezzo del puzzle è fondamentale, altrimenti non funzionerà!” (con personaggi in situazioni drammaticissime e di fronte a scelte di vita o di morte) a “massì, di questo possiamo anche farne a meno, tanto è lo stesso”. Come non capire e giustificare, in queste occasioni, lo spettatore che, giustamente, si sente preso in giro?
Di fronte a simili situazioni, quindi, tanto meglio una stagione di soli 13 episodi, perché in alcuni frangenti il brodo sembra talmente tanto allungato, che non abbiamo il coraggio di pensare a cosa sarebbe successo con una stagione di 20/22 puntate.
Ad ogni modo, tra alti e bassi, finalmente si giunge alla conclusione. Una conclusione che, come ormai era divenuto evidente con le stagioni 3 e 4, si sarebbe focalizzata a chiudere e terminare principalmente la stagione 5, più che l’intera serie. Certo, qualche rimando c’è, che va anche a riprendere e a spiegare delle questioni insolute fin dalla prima stagione, ma è evidente che i riferimenti maggiori son a quest’ultima stagione.
Diciamo, inoltre, che per quanto molti fan siano rimasti un po’ delusi da questo finale, forse, un po’ semplicistico, bisogna anche ammettere che è meno peggio di quanto appaia inizialmente. Quantomeno, questa volta, non vi sono rimandi religiosi-metafisici-esoterici (come era accaduto in LOST o in Battlestar Galactica) e tutto rimane, per fortuna, legato al mero ambito fantascientifico. Visti i precedenti, ad alcuni è probabilmente già bastato questo per tirare un sospiro di sollievo, d’altra parte, però, si poteva anche fare qualcosa di molto meglio.
Per concludere, FRINGE è una serie che, nata sotto grandi auspici, ha sicuramente vissuto notevoli alti e bassi. Alcuni per merito (o demerito) proprio, altri a causa di fattori esterni come le scelte del network e gli umori del pubblico americano. In generale, però, conclusa la visione anche di questa quinta e ultima stagione, si può dire che sia una serie nel complesso più che valida e che merita una visione. L’incapacità di mantenere alta la qualità come nelle prime stagioni (che in questo è stata molto alta) è una caratteristica comune, praticamente, a tutte le serie che si rivolgono al pubblico più generalista (fanno eccezione solo i titoli che vanno su canali a pagamento come HBO). Nel caso di FRINGE, però, ci sembra che il calo non sia stato così evidente come in molte altre; e anche l’ultima stagione, per quanto ben lontana dai livelli più alti della prima o, ancor più, della seconda, non ci sembra sfiguri poi così tanto. Il finale, inoltre, per quanto forse un po’ deludente (almeno per chi si aspettava qualche imprevedibile colpo di scena o qualcosa di più spettacolare), è sorprendentemente coerente, un fatto su cui ben pochi, ormai, osavano sperare e questo, già da solo, dà a tutta la serie qualche punto in più.
venerdì 22 febbraio 2013
Jeff Smith - "Bone"
Autore: Jeff Smith
Titolo: "Bone - l'integrale"
Edizione: Bao Pubblishing
Anno: 2011
Pubblicato nel corso di svariati anni, "Bone" è un lungo viaggio sia per i protagonisti che per gli stessi lettori.
Terminato il poderoso tomo edito da Bao Pubblishing (oltre 1300 pagine) e scorrendo le parole di Neil Gaiman a corredo e commento dell'opera, non si può che annuire. Lo scrittore inglese, infatti, sembra cogliere appieno la triplice natura di questo fumetto.
"Bone", infatti, ha almeno 3 tipi di lettura diversi.
- Il primo è quello della puntata, quasi autoconclusiva, presente soprattutto all'inizio della vicenda, che è anche il primo modo in cui il fumetto ha visto la luce: cioè in fascicoletti di circa 20 pagine.
- Il secondo è quello dei macro-capitoli in cui la storia si snoda, ognuno caratterizzato da una ambientazione, da personaggi o da fatti ben distinti. Si tratta della seconda edizione di "Bone", in cui i fascicoletti iniziali sono stati ristampati in volumetti monografici, ognuno sviluppato attorno a temi e argomenti precisi e spesso differenti dagli altri.
- Il terzo, infine, è quello del volume integrale, in cui tutta la saga dei fratelli Bone, di Thorne, del Signore delle Locuste e dell'intera Valle può essere letta in una volta sola (con le dovute pause per mangiare, dormire e fare i propri bisogni).
Ciò che sorprende, quindi, è come Jeff Smith riesca a far funzionare perfettamente tutti e 3 questi metodi di lettura e, al contempo, a fonderli tra loro per dare luce a una vicenda organica e coerente. Sarebbe stato facile, infatti, perdere di vista, di volta in volta, l'uno o l'altro obiettivo, finendo per divagare o doversi inventare qualche deus-ex-machina per rimettere le cose a posto. Si sarebbe potuto sentire il rumore degli ingranaggi che sferragliano, là dove la narrazione si fa farraginosa per cercare di mantenere certi standard, invece questo non succede perchè tutto procede spedito e fluido. O, ancora, si sarebbe potuto sentire che l'autore si muoveva in generi a lui non congeniali, quando da fumetto umoristico, "Bone", diviene prima fantasy e poi apertamente drammatico. Eppure non succede, al contrario tutto appare come una naturale e logica evoluzione che trascina il lettore con sé in una escalation di pathos. Infine si potrebbe anche pensare, osservando lo snodarsi degli eventi dall'esterno, che certi passaggi siano dettati solo dalla ricerca dell'hype gratuito per sorprendere e fidelizzare il lettore. Invece, terminata la lettura, risulta subito evidente che la storia era già tutta lì, davanti a noi, doveva solo essere raccontata... e Jeff Smith lo fa magnificamente.
"Bone", insomma, è una lunga saga capace di divertire e far ridere, ma anche appassionare ed emozionare e, infine, di commuovere e, magari, di far versare qualche lacrima. Per questo bisogna dire "grazie" a Jeff Smith. Come tutte le opere capaci di coinvolgere così il lettore, inoltre, girata l'ultima pagina e dato uno sguardo all'ultima vignetta, non si può che provare istintivamente un moto di malinconia e di nostalgia per i protagonisti, come se stessimo dicendo addio a dei cari amici.
Titolo: "Bone - l'integrale"
Edizione: Bao Pubblishing
Anno: 2011
Pubblicato nel corso di svariati anni, "Bone" è un lungo viaggio sia per i protagonisti che per gli stessi lettori.
Terminato il poderoso tomo edito da Bao Pubblishing (oltre 1300 pagine) e scorrendo le parole di Neil Gaiman a corredo e commento dell'opera, non si può che annuire. Lo scrittore inglese, infatti, sembra cogliere appieno la triplice natura di questo fumetto.
"Bone", infatti, ha almeno 3 tipi di lettura diversi.
- Il primo è quello della puntata, quasi autoconclusiva, presente soprattutto all'inizio della vicenda, che è anche il primo modo in cui il fumetto ha visto la luce: cioè in fascicoletti di circa 20 pagine.
- Il secondo è quello dei macro-capitoli in cui la storia si snoda, ognuno caratterizzato da una ambientazione, da personaggi o da fatti ben distinti. Si tratta della seconda edizione di "Bone", in cui i fascicoletti iniziali sono stati ristampati in volumetti monografici, ognuno sviluppato attorno a temi e argomenti precisi e spesso differenti dagli altri.
- Il terzo, infine, è quello del volume integrale, in cui tutta la saga dei fratelli Bone, di Thorne, del Signore delle Locuste e dell'intera Valle può essere letta in una volta sola (con le dovute pause per mangiare, dormire e fare i propri bisogni).
Ciò che sorprende, quindi, è come Jeff Smith riesca a far funzionare perfettamente tutti e 3 questi metodi di lettura e, al contempo, a fonderli tra loro per dare luce a una vicenda organica e coerente. Sarebbe stato facile, infatti, perdere di vista, di volta in volta, l'uno o l'altro obiettivo, finendo per divagare o doversi inventare qualche deus-ex-machina per rimettere le cose a posto. Si sarebbe potuto sentire il rumore degli ingranaggi che sferragliano, là dove la narrazione si fa farraginosa per cercare di mantenere certi standard, invece questo non succede perchè tutto procede spedito e fluido. O, ancora, si sarebbe potuto sentire che l'autore si muoveva in generi a lui non congeniali, quando da fumetto umoristico, "Bone", diviene prima fantasy e poi apertamente drammatico. Eppure non succede, al contrario tutto appare come una naturale e logica evoluzione che trascina il lettore con sé in una escalation di pathos. Infine si potrebbe anche pensare, osservando lo snodarsi degli eventi dall'esterno, che certi passaggi siano dettati solo dalla ricerca dell'hype gratuito per sorprendere e fidelizzare il lettore. Invece, terminata la lettura, risulta subito evidente che la storia era già tutta lì, davanti a noi, doveva solo essere raccontata... e Jeff Smith lo fa magnificamente.
"Bone", insomma, è una lunga saga capace di divertire e far ridere, ma anche appassionare ed emozionare e, infine, di commuovere e, magari, di far versare qualche lacrima. Per questo bisogna dire "grazie" a Jeff Smith. Come tutte le opere capaci di coinvolgere così il lettore, inoltre, girata l'ultima pagina e dato uno sguardo all'ultima vignetta, non si può che provare istintivamente un moto di malinconia e di nostalgia per i protagonisti, come se stessimo dicendo addio a dei cari amici.
mercoledì 6 febbraio 2013
Mino Milani - "Storia Avventurosa di Pavia, vol. II"
Autore: Mino Milani
Titolo: "Storia Avventurosa di Pavia, vol. II"
Edizione: Luigi Ponzio e Figlio Editori in Pavia
Anno: 1998
Iniziata al semplice scopo di documentazione, ben presto la lettura di questa "Storia Avventurosa di Pavia", si è tramutata in vero e proprio piacere. Il merito è senz'altro di Mino Milani, scrittore capace di trasmettere i concetti in maniera semplice ed efficace senza mai annoiare il lettore, anche là dove i particolari divengono complicati. Ma, soprattutto, anche capace di farti respirare l'atmosfera del periodo storico di cui racconta grazie a quella che deve essere stata una documentazione a tratti enciclopedica, ma che non viene mai fatta pesare sul lettore.
La narrazione, infatti, procede spedita, senza rallentamenti o sussulti, senza le lezioncine da tuttologo che tanto piacciono a certi romanzieri (Dan Brown su tutti). Milani, in questo modo, dimostra di saperne molto più di tanti altri, sia sull'argomento su cui si documenta (perchè ti fa assimilare le cose naturalmente, senza doverti dire: "alt, attento in questo punto perchè è importante"), sia nell'arte del raccontare (perchè, allo stesso modo, non ti mette mai di fronte alla situazione tipo: "guarda come mi son documentato bene. devi sapere che...")
Seppur breve, quindi, questa mia recensione è una esortazione, in primis a tutti i pavesi e a coloro che si son ritrovati a passar anche solo in visita per Pavia, alla lettura di questo libro (e di quello che lo precede e quello che lo segue, naturalmente). Scopriranno al meglio fatti eccezionali di una città dal passato glorioso che, purtroppo, oggi appare aver dimenticato o, addirittura, sembra quasi volutamente nascondere. Scopriranno, anche, uno scrittore di grande qualità, di cui vorranno sicuramente andar ben presto alla ricerca (purtroppo spesso infruttuosa) degli altri libri, ognuno dei quali è un piccolo gioiello.
Titolo: "Storia Avventurosa di Pavia, vol. II"
Edizione: Luigi Ponzio e Figlio Editori in Pavia
Anno: 1998
Iniziata al semplice scopo di documentazione, ben presto la lettura di questa "Storia Avventurosa di Pavia", si è tramutata in vero e proprio piacere. Il merito è senz'altro di Mino Milani, scrittore capace di trasmettere i concetti in maniera semplice ed efficace senza mai annoiare il lettore, anche là dove i particolari divengono complicati. Ma, soprattutto, anche capace di farti respirare l'atmosfera del periodo storico di cui racconta grazie a quella che deve essere stata una documentazione a tratti enciclopedica, ma che non viene mai fatta pesare sul lettore.
La narrazione, infatti, procede spedita, senza rallentamenti o sussulti, senza le lezioncine da tuttologo che tanto piacciono a certi romanzieri (Dan Brown su tutti). Milani, in questo modo, dimostra di saperne molto più di tanti altri, sia sull'argomento su cui si documenta (perchè ti fa assimilare le cose naturalmente, senza doverti dire: "alt, attento in questo punto perchè è importante"), sia nell'arte del raccontare (perchè, allo stesso modo, non ti mette mai di fronte alla situazione tipo: "guarda come mi son documentato bene. devi sapere che...")
Seppur breve, quindi, questa mia recensione è una esortazione, in primis a tutti i pavesi e a coloro che si son ritrovati a passar anche solo in visita per Pavia, alla lettura di questo libro (e di quello che lo precede e quello che lo segue, naturalmente). Scopriranno al meglio fatti eccezionali di una città dal passato glorioso che, purtroppo, oggi appare aver dimenticato o, addirittura, sembra quasi volutamente nascondere. Scopriranno, anche, uno scrittore di grande qualità, di cui vorranno sicuramente andar ben presto alla ricerca (purtroppo spesso infruttuosa) degli altri libri, ognuno dei quali è un piccolo gioiello.
venerdì 1 febbraio 2013
Joe R. Lansdale - "In un Tempo Freddo e Oscuro"
Autore: Joe R. Lansdale
Titolo: "In un Tempo Freddo e Oscuro"
Edizione: Einaudi
Anno: 2006
Seconda antologia di racconti in terra italica per Joe R. Lansdale. Antologia, tra l'altro, pensata apposta per lo stivale, con una serie di storie scelte direttamente dall'autore.
Lansdale, lo sappiamo, è autore ecclettico, capace di saltare da un genere all'altro con grande facilità e naturalezza. Riesce a trovarsi a suo agio con il pulp più nero e splatter (il ciclo del Drive-In), così come le storie noir di denuncia sociale ("In Fondo alla Palude"), l'horror o la fantascienza (racconti vari). Ciò che gli riesce ancora meglio, però, è prendere due o più di questi generi e mescolarli fra loro facendo saltar fuori un pout pourri di situazioni e personaggi spesso surreali, originali e brillanti.
Purtroppo, però, a differenza dell'altra precedente antologia di racconti pubblicata in Italia ("Maneggiare con Cura", Fanucci, 2004), qui manca quasi del tutto la tipica varietà di generi di Lansdale. Tolte due sole storie, una di guerra che potrebbe essere ambientata nel futuro (ma che non può definirsi di fantascienza) e una prettamente surreale, le altre sono genuinamente pulp. E' vero che è proprio in questo genere che lo scrittore texano ha forse dato il suo meglio, ma attraverso questo libro si finisce per avere una visione ridotta e ristretta della sua produzione. Inoltre, al riguardo di certi titoli che vi trovano spazio, ci sorge il dubbio se siano davvero il "meglio" della sua narrativa breve. C'è di buono, almeno, che non si è scaduti nel facile escamotage di proporre qualche doppione rispetto all'altra antologia, ma è ben poca consolazione.
Lansdale è un grande autore e scrittore, per cui anche in questo libro si possono trovare momenti molto belli e di qualità. Da un simile volume di racconti, però, è lecito e, potremmo dire, anche doveroso, aspettarsi di più.
Molto di più.
Per questo lascia un po' l'amaro in bocca chiudere questo tomo e scoprire che non ci ha dato tutto quello che attendevamo.
Certo, un'opera non del tutto riuscita di Lansdale vale, alle volte, anche due o tre libri di altri scrittori, ma questo non ripaga il lettore dalla delusione che prova. Il consiglio, quindi, se si vuole provare l'autore texano sul breve, è di orientarsi verso "Maneggiare con Cura", altrimenti di tenere questo "In un Tempo Freddo e Oscuro" solo come extrema ratio, in caso di grave crisi d'astinenza.
Titolo: "In un Tempo Freddo e Oscuro"
Edizione: Einaudi
Anno: 2006
Seconda antologia di racconti in terra italica per Joe R. Lansdale. Antologia, tra l'altro, pensata apposta per lo stivale, con una serie di storie scelte direttamente dall'autore.
Lansdale, lo sappiamo, è autore ecclettico, capace di saltare da un genere all'altro con grande facilità e naturalezza. Riesce a trovarsi a suo agio con il pulp più nero e splatter (il ciclo del Drive-In), così come le storie noir di denuncia sociale ("In Fondo alla Palude"), l'horror o la fantascienza (racconti vari). Ciò che gli riesce ancora meglio, però, è prendere due o più di questi generi e mescolarli fra loro facendo saltar fuori un pout pourri di situazioni e personaggi spesso surreali, originali e brillanti.
Purtroppo, però, a differenza dell'altra precedente antologia di racconti pubblicata in Italia ("Maneggiare con Cura", Fanucci, 2004), qui manca quasi del tutto la tipica varietà di generi di Lansdale. Tolte due sole storie, una di guerra che potrebbe essere ambientata nel futuro (ma che non può definirsi di fantascienza) e una prettamente surreale, le altre sono genuinamente pulp. E' vero che è proprio in questo genere che lo scrittore texano ha forse dato il suo meglio, ma attraverso questo libro si finisce per avere una visione ridotta e ristretta della sua produzione. Inoltre, al riguardo di certi titoli che vi trovano spazio, ci sorge il dubbio se siano davvero il "meglio" della sua narrativa breve. C'è di buono, almeno, che non si è scaduti nel facile escamotage di proporre qualche doppione rispetto all'altra antologia, ma è ben poca consolazione.
Lansdale è un grande autore e scrittore, per cui anche in questo libro si possono trovare momenti molto belli e di qualità. Da un simile volume di racconti, però, è lecito e, potremmo dire, anche doveroso, aspettarsi di più.
Molto di più.
Per questo lascia un po' l'amaro in bocca chiudere questo tomo e scoprire che non ci ha dato tutto quello che attendevamo.
Certo, un'opera non del tutto riuscita di Lansdale vale, alle volte, anche due o tre libri di altri scrittori, ma questo non ripaga il lettore dalla delusione che prova. Il consiglio, quindi, se si vuole provare l'autore texano sul breve, è di orientarsi verso "Maneggiare con Cura", altrimenti di tenere questo "In un Tempo Freddo e Oscuro" solo come extrema ratio, in caso di grave crisi d'astinenza.
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