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martedì 18 marzo 2014

True Detective


HBO, si sa, è sinonimo di qualità. I titoli sfornati negli ultimi anni sono uno meglio dell’altro e hanno contribuito a spedire l’emittente americana direttamente nell’Olimpo delle reti preferite dai fan di serie-tv. I motivi son tanti e al contempo semplici: storie interessanti, scritte bene, recitate anche meglio, scenografie, costumi e regia paragonabili ai film di Hollywood, nessuna remora a mostrare nudi, sesso e violenza là dove ce n’è bisogno (e a volte anche dove non ce n’è).

True Detective - Stagione 1
Uno degli ultimi titoli nati è proprio True Detective. Una serie-tv antologica, nel senso che ogni stagione sarà dedicata a un caso diverso, con nuovi attori, nuovi personaggi, nuove ambientazioni. Non abbiamo problemi, quindi, a parlare di questo titolo senza aspettare le prossime stagioni, se ci saranno, perché tutto nasce e finisce qui.
La serie è prodotta, tra gli altri, anche da Matthew McConaughey e Woody Harrelson che interpretano, rispettivamente, Rust “Rusty” Cohle e Martin “Marty” Hart, la coppia di detective protagonista di questa stagione. Chiaro, dunque, l’interesse da parte dei due attori nei confronti del plot, tanto da esporsi in prima persona mettendoci i soldi.

Fin dalla prima puntata è subito chiaro perché McConaughey e Harrelson credessero tanto in questo titolo. La serie funziona alla grande: lo script riesce a incuriosire e a calamitare l’attenzione del telespettatore.
La storia si dipana su piani temporali differenti eppure paralleli. Diversi sono gli anni importanti in cui succedono le cose. Uno è il 2013, Cohle e Hart non sono più in polizia, sono stati convocati per porgli alcune domande su un loro vecchio caso risalente al 1995. L’ambientazione è la Lousiana, quindi non sorprende che ufficialmente i rapporti di quel caso siano andati distrutti a causa dell’uragano Katrina, perciò due nuovi detective vogliono porgli domande su ciò che c’era scritto in quei fascicoli.
Comincia, dunque, il racconto di quei fatti, e l’azione si sposta nel 1995 per mostrarci in diretta ciò che avviene. Un omicidio, apparentemente rituale, quale mai si era visto da quelle parti. Gli indizi sono tanti, ma sembrano non portare da nessuna parte.
Cohle e Hart, ai tempi, erano colleghi, anche se il loro rapporto appare un po’ singolare e, a tratti, burrascoso. Cohle è strano, chiuso in sé stesso, fa discorsi che Hart fatica a capire sul significato dell’esistenza o, meglio, il suo non significato. Hart, d’altra parte, è un personaggio più terra-terra, legato alla sua famiglia, innamorato di sua moglie e delle sue figlie, ma incapace di tener allacciati i pantaloni appena una ragazza si mostra interessata. Non potrebbe esserci una coppia più diversa e, forse proprio per questo, sullo schermo funziona. Naturalmente il merito è soprattutto di McConaughey e Harrelson, perfettamente calati nella parte. Se 
ce lo si poteva abbastanza aspettare per quanto riguarda Harrelson, dato che Hart è un personaggio nelle sue corde, tutto sommato piuttosto simile ad altri che ha già interpretato in passato, McConaughey è strabiliante e viene quasi spontaneo chiedersi dove abbia, di punto in bianco, imparato a recitare così, dopo che per anni è stato un attore decisamente monodimensionale (dopo aver visto la serie, però, non meraviglia assolutamente che abbia vinto l'Oscar come Miglior Attore Protagonista).
La coppia, in ogni caso, non funziona solo per il pubblico, ma funziona anche nel lavorare ai casi, con due atteggiamenti e modi di procedere diametralmente opposti, che fan sì che ciascuno osservi ogni cosa da punti di vista nuovi e per lui inusuali, portando poi a dei risultati concreti.
Ben presto, nonostante le pressioni politiche e religiose che premono sulle loro spalle, Cohle e Hart cominciano a trovare sempre più indizi riguardo a quella che sembrerebbe essere una sorta di culto o di setta legata al Re in Giallo. Alcuni simboli si ripetono, come la spirale, mentre alcuni nomi si fanno sempre più frequenti in bocca agli interrogati, come Carcosa.

A questo punto lo spettatore che sia anche lettore appassionato, non può non notare tutte le citazioni trasversali all’opera più famosa di Robert W. Chambers, l’antologia di racconti intitolata proprio “Il Re in Giallo”. Un libro che ispirò anche il più celebre Lovecraft nella creazione di molti dei suoi miti e, soprattutto, del più famoso pseudo-biblia di tutti i tempi: il Necronomicon. Perché anche nell’opera di Chambers, in realtà, Il Re in Giallo è il titolo di una rappresentazione teatrale, di un libello, fantastico, capace di portare alla follia chi ne entrasse in possesso e lo leggesse. Chambers ne riporta, in alcuni momenti, dei frammenti, stralci poetici, puntualmente citati e riportati alla lettere nella serie-tv.
Il mistero si infittisce e lo spettatore vede salire sempre più le proprie aspettative.
Il caso sembra giungere a una svolta con la morte di due sospetti. Forse è tutto finito, i colpevoli sono stati uccisi, giustizia è stata fatta. Eppure qualcosa non torna. Forse non son stati loro o, forse, non son stati solo loro. Forse, anzi, quasi certamente, c’è dietro qualcosa d’altro. Qualcun altro. Gente abbastanza potente e abbastanza in alto da aver messo a tacere le sparizioni di decine di donne e bambini nel corso degli anni per continuare le proprie pratiche indisturbati. Qualcuno che ha creato un vero e proprio culto attorno al Re in Giallo.
Attraverso i piani temporali, che a un certo punto si arricchiscono anche del 2002, l’indagine prosegue tra ostacoli, strade a fondo chiuso e nuovi indizi.

Nella seconda metà della stagione, lo spettatore più avvezzo alle serie-tv non può non notare qualche somiglianza con un altro titolo di qualche anno fa, di origine inglese. Mi riferisco alla miniserie in tre film “Red Riding” (di cui avevamo parlato qui).
I punti di contatto sembrano evidenti.
Una regione pesantemente intaccata dalla miseria, dalla povertà e dall’ignoranza. Un gruppo di persone potenti, in grado di fare tutto ciò che vogliono. Bambini scomparsi nell’arco di decine di anni, le cui sparizioni vengono passate sotto silenzio dalle autorità o per le quali vengono trovati capri espiatori di comodo.
Fin qui il plot sembrerebbe essere simile, ma non necessariamente debitore l’uno verso l’altro. Ciò che cambia tutto è l’inserimento di un personaggio: un travestito con informazioni importanti per Cohle, che gli rivela di esser stato presente a certi riti (molto simile al character interpretato da Robert Sheehan in “Red Riding”) e un video che viene ritrovato. In esso possiamo assistere proprio a un ritrovo del culto del Re in Giallo, a cui partecipano, con ogni probabilità, le importanti personalità di cui si diceva. Nessun modo per identificarli, però, perché indossano tutti una maschera, la maschera di un animale. Diverso per ognuno. Proprio come in “Red Riding” i membri del gruppo erano soliti chiamarsi tra loro con nomi di animali.
Il senso di dejà-vù è forte.
Eppure, fino a questo punto, la serie è scritta così bene che si è ben disposti a passarci sopra per andare avanti, per vedere dove si vuole andare a parare.

Purtroppo, però, il finale non appare all’altezza del resto della stagione e delle aspettative.
Nell’ultimo episodio vi è una svolta nelle indagini con un escamotage un po’ tirato per i capelli, ma che, tutto sommato, ci può anche stare. I nostri detective arrivano a colui che sembrerebbe poter essere l’esecutore materiale di molti degli omicidi, quantomeno una sorta di boia o tuttofare che sceglieva e rapiva i bambini per la setta. Nonché il custode di un luogo oscuro, sperduto tra le paludi, che arriviamo a identificare con la Carcosa di cui tanti testimoni avevano parlato.
Il confronto è brutale e i nostri protagonisti rischiano di lasciarci la pelle. Ma il cattivo viene ucciso e loro si salvano.
Fine.

Siamo persuasi che questa non fosse, come dicono in molti, una serie basata tanto sul plot, quanto sui personaggi. Ma un finale simile risulta alquanto indigesto. I protagonisti ritornano a mettere insieme la coppia (scoppiata nel 2002) dopo undici anni solo perché sono convinti che la setta che c’è dietro a quelle sparizioni e a quegli omicidi vada fermata. Una setta che, ormai ne sono certi, coinvolge persone altolocate. Tanto che prima di recarsi all’appuntamento col destino, fanno un gran numero di copie di tutte le prove che hanno, da spedire a giornali, polizia, FBI, tv locali e nazionali.
Eppure, dopo aver eliminato il mero esecutore e aver liquidato la faccenda della setta con una frettolosa frase pronunciata al tg “le autorità hanno messo a tacere le voci sul coinvolgimento di persone importanti”, per loro sembra che la vicenda sia finita. Sinceramente ci sembra un po’ poco. Non pretendevamo che Cohle e Hart riuscissero a scoperchiare tutto il marcio: il finale con i cattivi che rimangono impuniti ci può anche stare, nel momento in cui si vuole fare una serie che punti un po’ più al realismo. Quello che non torna è l’atteggiamento dei personaggi, che sembrano aver subito un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto da dimenticare completamente tutto ciò per cui stavano combattendo, lasciandoselo dietro le spalle quasi non fosse più importante.
Un simile twist avrebbe avuto più senso se colui che avevano fatto fuori si fosse rivelato, in qualche modo, una figura di spicco della setta. Una sorta di santone, magari una specie di oracolo a cui tante persone potenti si rivolgevano, nonostante fosse, per usare le loro stesse parole, “un bifolco”. Difficile, infatti, credere che potesse avere un ascendente di tipo intellettuale o carismatico, da qui l’idea che, invece, magari l’essere portato per delle crisi epilettiche, potesse essere da loro interpretato come qualcosa di metafisico.
Purtroppo non vi sono tracce di alcuna sottotrama di questo tipo.

E se pure si tratta di una serie che punta l’attenzione sui personaggi, sulla loro evoluzione, sul rapporto che vi è tra loro, in cui la trama generale, l’indagine, passa in secondo piano, al punto da poter perfino esser messa da parte a un certo punto, il finale risulta ugualmente deludente. È deludente proprio perché la trama generale rimane aperta, il caso non è davvero chiuso, tutt’altro, quindi i personaggi non possono comportarsi come se lo fosse e, finalmente, andare avanti con la loro vita. L’ossessione di Cohle per questi omicidi è ancora lì, perché gli assassini sono ancora là fuori, eppure gli sceneggiatori, nelle ultime immagini, ci mostrano un Rusty finalmente in pace con sé stesso e con i suoi demoni interiori. Un uomo che, convinto di aver fatto giustizia, finalmente riesce a guardare avanti, a ciò che resta della sua vita, invece che continuamente indietro.
Il finale, dunque, risulta essere alquanto incoerente con il resto della serie e perfino nei confronti dei personaggi, fino a quel momento gestiti benissimo. L’impressione è che sia un po’ scappata di mano agli sceneggiatori la gestione dei tempi, di cosa mostrare poco per volta e si sia dovuti giungere frettolosamente a una conclusione con l’ultima puntata. Forse, con un altro paio di episodi ancora a disposizione, più tempo e spazio per gestire tutte le sottotrame, ora staremmo parlando di un capolavoro a tutto tondo.
Così, invece, rimane una serie di qualità superiore, ottimamente gestita fino all’ultima puntata, ma con un finale decisamente non all’altezza.

giovedì 6 marzo 2014

Grant Morrison & Dave McKean - "Batman: Arkham Asylum - Absolute Edition"

Titolo: “Batman: Arkham Asylum – Absolute Edition”
Autore: Grant Morrison e Dave McKean
Edizione: RW Lion
Anno: 2012

Grant Morrison è considerato uno degli autori di fumetti più brillanti degli ultimi anni, salito alla ribalta del mondo dei comics grazie alle sue pregevolissime run di alcuni dei maggiori personaggi della DC, nonché la sua interpretazione di Animal Man e diverse testate originali come “The Invisibles”.
Prima, però, che diventasse una sorta di superstar del fumetto supereroistico, era un autore inglese quasi anonimo. La svolta nella sua carriera è arrivata proprio grazie ad “Arkham Asylum”, una storia che presentava il personaggio di Batman in maniera del tutto innovativa e che, a distanza di anni, riesce a conservare tutte le proprie qualità.
Ai tempi, ovviamente, Morrison non sapeva ancora che questa storia gli avrebbe aperto le porte del gotha del fumetto americano. Per lui era un trampolino di lancio che andava sfruttato al mille per cento per ottenere quanta più spinta possibile per arrivare in alto. Così fece, andando a confezionare una vicenda e una sceneggiatura così complessa e infarcita di simbolismi, metafore, rimandi incrociati, da essere considerata un capolavoro ancora oggi.
Non meraviglia, quindi, che “Arkham Asylum” abbia avuto un successo esagerato e che Morrison sia stato immediatamente portato in palmo di mano attraverso l’Atlantico. Semmai meraviglia che un’opera così complessa, così stratificata e piena di livelli di lettura diversi, abbia fatto così tanta presa anche sulla massa, sul pubblico mainstream. Certamente i disegni di McKean (per quanto il termine “disegni” sia estremamente limitante nel caso dell’artista inglese) hanno aiutato, ammantando tutta l’opera di ulteriore pregio, anche visivo, rendendola in grado di spiccare in maniera nettissima tra la massa.
Eppure rimane il sospetto che i lettori americani che ebbero il privilegio di leggere per primi queste pagine, non abbiano percepito e compreso appieno la profondità di quest’opera. Il motivo è semplice: quei primi albi sequenziali presentavano solo ed esclusivamente i disegni, le tavole, i dialoghi della storia, senza alcun aiuto esterno, nessun redazionale che spiegasse, che svelasse tutti i meccanismi e i segreti celati in ogni pagina.
Più che il grande formato, capace di rendere al meglio l’opera di McKean, ciò che rende preziosa un’edizione come questa è ciò che viene dopo il fumetto vero e proprio. La sceneggiatura originale di Morrison, con tutti i suoi appunti, i suoi commenti, i suoi suggerimenti. Con tutti gli incisi in cui spiega esattamente cosa vuole comunicare e perché, cosa significa ogni singolo oggetto sparso tra le pagine, quale il suo valore metafisico, quale il rimando alle carte dei tarocchi o a qualche teoria filosofica o psicologica.
E se già i testi originali di Morrison non bastassero, ecco dei commenti posticci, in cui l’autore stesso disamina e illustra più approfonditamente ciò che lo ha portato a prendere certe decisioni e a inserire certe scene. Insomma, un vero e proprio tuffo in “Arkham Asylum”: fino in fondo, fino a toccarne la vera essenza illuminandone ogni più angusto e recondito particolare, per poterne riemergere meravigliati e ammirati.
Se volete leggere un’opera del tutto fuori dal coro sull’uomo pipistrello, questo è pane per i vostri denti. E se volete leggere “Arkham Asylum”, la cosa migliore è proprio farlo avendo tra le mani un’edizione come questa, che possa permettere di apprezzare il fumetto al meglio e in tutto e per tutto.

martedì 18 febbraio 2014

Art Spiegelman - "MAUS"

Autore: Art Spiegelman
Titolo: “MAUS”
Edizione: Einaudi – Stile Libero
Anno: 2010

“MAUS” di Art Spiegelman è un’opera che ingenera sentimenti contrapposti nel lettore. Mentre lo si ha tra le mani, infatti, non si riesce a trattenersi dal chiedersi: “perché non l’ho letto prima?”, ma al contempo ci si sente fortunati per le emozioni che suscita poterlo leggere per la prima volta. Questo succede perché “MAUS” è un’opera potente, che scava nel cuore delle persone suscitando sensazioni e sentimenti forti con cui, in certi momenti, è difficile scendere a patti.
L’opera sembra partire in sordina, con l’escamotage meta-letterario di farci vedere l’autore stesso mentre comincia a pensare di scrivere e disegnare questo libro. Ci mostra la semplicità dei rapporti umani, in particolare quelli tra Art Spiegelman e suo padre Vladek, e il tema centrale dell’olocausto appare secondario, quasi solo un argomento di conversazione tra i due. Poi, poco a poco, però, i racconti di Vladek assumono maggiore spazio ed è proprio su questo equilibrio tra presente e passato che si regge tutto il libro. Sarebbe, forse, stato semplice per l’autore creare una contrapposizione, una dicotomia, tra questi due periodi storici, contraddistinguendoli anche per il tono della narrazione, l’uno più serio e drammatico, l’altro più leggero e brioso. Una scelta che avrebbe potuto dare una sorta di tregua al lettore che, altrimenti, avrebbe rischiato di rimanere schiacciato dalle emozioni. Invece ciò che troviamo è un ritmo narrativo più complesso, con difficoltà sia nel presente che nel passato, ma, allo stesso modo, momenti più rilassati, quasi divertenti, sia in un periodo che nell’altro.
Ciò che colpisce, soprattutto, è la spietatezza dell’autore. Spiegelman non fa sconti a nessuno. “MAUS” non è un’opera buonista, non è neanche un’opera di parte. Non soffre del complesso per cui, se si parla dell’olocausto, allora tutti gli ebrei debbono essere automaticamente buoni, generosi, vittime innocenti di un orrore più grande di loro. “MAUS” non scade mai nell’apologia di un popolo o nel tentativo di addolcire la pillola, ma si limita ad essere cronaca fedele, fredda e brutale, di una serie di fatti. Così sono frequenti i casi di violenza, di soprusi, compiuti da ebrei verso altri ebrei, semplicemente perché si tratta di una vera e propria guerra per la sopravvivenza, in cui spesso vince solo il più spietato. Leggendo viene normale provare sentimenti di odio verso coloro che compiono truffe ai danni di loro pari o coloro che, nei campi di concentramento, sono perfino più cattivi degli stessi soldati tedeschi. Sono disperati tentativi di sopravvivere, il disgraziato che se la prende e si approfitta di chi è più disgraziato di lui. Lo stesso protagonista di tutto il racconto, Vladek, in più occasioni si ritrova a venir preso per la gola in alcuni scambi per poi, altre volte, comportarsi lui stesso come uno strozzino. Nel finale, addirittura, dimostra di essere razzista nei confronti delle persone di colore, come se tutto ciò che ha passato non gli abbia insegnato nulla, visto che considera i “neri” dei diversi, non degli esseri umani uguali a lui.
Spiegelman, in tutto questo, non dà un giudizio morale. Non punta il dito verso coloro che, invece di dividere il poco che avevano con tutti, per cercare di tirare avanti tutti insieme, se lo sono tenuto per sé, nel tentativo di garantire la salvezza almeno personale e dei propri cari. Si limita a raccontare come uno dei più grandi orrori che la storia umana ricordi sia in grado di cambiare le persone. Di primo acchito viene normale considerare dei mostri coloro che vediamo comportarsi male (secondo un sistema di valori che non ha dovuto fare i conti con la situazione in cui si sono trovate a vivere quelle persone), ma, riflettendoci attentamente, la nostra condanna dovrebbe andare verso coloro che hanno fatto sì che quelle persone fossero costrette ad agire in quel modo.
Quando si gira l’ultima pagina di questo libro si sente che ha lasciato un segno dentro di noi. Si rimane un po’ smarriti, come se non si riconoscesse più il mondo che ci circonda. Quasi si vorrebbe continuare la lettura, per quanto dolorosa fosse, per quanto lasciasse nel nostro cuore un segno come un marchio a fuoco. Un segno che fa male, profondo e che brucia, ma un segno che sentiamo può aiutarci a crescere, a migliorare, a diventare persone migliori.

venerdì 7 febbraio 2014

Andre Agassi - "Open"

Autore: Andre Agassi
Titolo: "Open"
Edizione: Einaudi Stile Libero
Anno: 2011

Devo ammettere di non essere un grande fan delle biografie e delle autobiografie. Soprattutto non sono un grande fan di quelle dedicate agli sportivi, nonostante nell’ultimo periodo sembrino spopolare.
È, dunque, con più di qualche dubbio e pregiudizio che ho preso in mano “Open” di Andre Agassi, nonostante i tanti bei commenti che ho letto in giro (anche da parte di amici) e nonostante sapessi che il ghost-writer dietro a questo libro fosse tutt’altro che uno sprovveduto, avendo vinto il premio Pulitzer.
Ma cosa era a preoccuparmi?
Principalmente di trovarmi di fronte a una noiosa e sterile cronistoria delle fasi salienti della vita e della carriera dell’ennesimo uomo di sport.
Non potevo sbagliarmi di più.
Il merito, probabilmente, non è solo di J. R. Moehringer ma anche, e soprattutto, del protagonista del libro: Agassi, infatti, non è un uomo di sport come tanti altri.
Dopo averlo terminato non mi son dunque sorpreso che avesse avuto il successo che ha avuto, che sia diventato un piccolo fenomeno editoriale, sia in Italia che all’estero. Gli elementi che fanno funzionare un libro ci sono tutti e sono gli stessi dei grandi best-sellers di narrativa, solo che questa volta sono veri.
Il protagonista, fin da piccolo, è un prescelto. Un prescelto dal padre, che ha deciso dovrà diventare, che lo voglia o no, il tennista numero uno al mondo. Dunque via con gli allenamenti fin dalla più tenera età. Ore e ore a palleggiare contro un mostro meccanico spara-palle soprannominato “il drago”. Niente scuola, è solo tempo perso e rubato agli allenamenti. E poi partite, partite e partite. Contro ragazzini della stessa età, più grandi e perfino adulti, contro avversari sempre più bravi, per poter migliorare.
Un prescelto, dunque, come nella migliore tradizione della narrativa fantasy, ma un prescelto ancora acerbo, che, in realtà, ancora non sa neanche chi è. Con tanti dubbi, domande e paure. Una sola certezza: l’odio per il tennis.
“Open”, dunque, diviene non solo la narrazione degli eventi e dei match della vita di Agassi, diviene un romanzo di formazione, di crescita. La crescita del protagonista, certamente, con la sua ricerca di sé stesso attraverso mille e più tentativi (di pettinatura, estetici, ma anche matrimoniali), il più delle volte andati a vuoto. Ma è leggendo quelle pagine, imparando ad apprezzare la persona dietro lo sportivo, con le sue fragilità, le sue incongruenze (può, colui che aveva le convulsioni all’idea di andare a scuola, diventare il filantropo che sogna di inondare di scuole tutta l’america?), che anche il lettore cresce e, forse, impara anche qualcosa su di sé.
Pur apparendo il classico “libro del momento” (quindi destinato a sparire appena cambia la moda), pur sembrando l’ennesima biografia di uno sportivo con il solo scopo di rubare spazio sulla mensola della libreria, “Open” è tutt’altro. È un libro che merita certamente una lettura: primo perché è scritto veramente bene (a questo riguardo non fidatevi di me, fidatevi del curriculum vitae del signor Moehringer che l’ha scritto), secondo perché riesce a lasciare qualcosa.
Oggigiorno sembra diventato raro trovare romanzi o volumi in grado di farlo. Anche tra i cosiddetti mattoni, quei libri pesantissimi che promettono di avere le risposte alle domande dell’esistenza, alla vita, l’universo e tutto quanto, è raro riuscire a trovarne uno che sia in grado di lasciare davvero il segno. Perfino tra quelle storie tragicissime che dovrebbero insegnare qualcosa al lettore. Il più delle volte il segno finiscono per lasciarlo solo nel portafogli e sul calendario, per il tanto tempo speso (o sprecato) per riuscire ad arrivarci faticosamente in fondo.
“Open”, invece, lascia il segno, e potreste anche trovare molto divertente il modo in cui lo fa.

mercoledì 22 gennaio 2014

Jonathan Carroll - "The Ghost in Love"

Autore: Jonathan Carroll
Titolo: "The Ghost in Love - Il Fantasma che si Innamorò"
Edizione: La Corte Editore
Anno: 2013

Carroll è uno scrittore straordinario. Apprezzato, amato, adorato in mezzo mondo. Negli Stati Uniti le prime edizioni di molti dei suoi libri sono vendute a peso d'oro.
In Italia?
Purtroppo, in Italia a momenti neanche ci accorgiamo della sua esistenza. I diritti dei suoi libri sono passati, fin'ora, attraverso almeno 4 case editrici diverse, senza trovare mai stabilità e continuità. Spesso, inoltre, non son mai stati ristampati o non hanno goduto di nuove edizioni; alcuni titoli, quindi, risultano pressoché introvabili. Le stesse case editrici che si son susseguite fin qui han spesso pescato un po' a caso, pubblicando solo alcuni volumi (mai in ordine cronologico) di certi cicli e lasciando diversi buchi qui e là nella sua bibliografia (emblematico il caso del "Sestetto delle Preghiere Esaudite", di cui son stati editati in italiano, nell'ordine: il terzo, il sesto, il primo e infine il quinto, dimenticando per strada il secondo e il quarto).
Insomma, non solo i lettori italiani non sembrano tenerlo in grande considerazione, ma neanche le case editrici l'hanno certo trattato con i guanti bianchi.
Ultimi, in ordine di tempo, ad accostarsi a Carroll, son quelli de La Corte Editore. Il primo nato sotto l'egida di questa casa editrice è proprio questo "The Ghost in Love", attualmente l'ultimo romanzo di Carroll (anche se risalente, ormai, al 2008 e da noi giunto a 5 anni di distanza).
Come spesso accade nei libri dello scrittore trapiantato a Vienna, i titoli son parzialmente fuorvianti. Protagonista di questo romanzo non è un fantasma innamorato, per quanto sia uno dei personaggi principali, né si tratta di una storia d'amore. E', invece, la storia di Ben Gould e di come sia morto, ma non sia morto. No, non avete letto male, effettivamente Ben avrebbe dovuto morire, in un certo modo e in un certo momento, almeno stando alla burocrazia ultraterrena che gestisce tutto quanto. Eppure non è morto... e questo è l'inizio di tutto.
Non proseguo troppo nel riassumere la storia perché, come tutte le trame di Carroll, è piena di colpi di scena e merita di essere scoperta da soli.
Mi soffermo, invece, sui contenuti del libro. Quello che appare come un "normale" romanzo fantastico, che potremmo quasi inquadrare nell'ambito del fantasy metropolitano, in realtà è molto di più. Proprio in questo sta la bravura di Carroll: nel riuscire a creare sempre intrecci, vicende, situazioni, capaci di calamitare l'attenzione del lettore, quasi fosse un avvincente blockbuster, ma con una profondità non comune.
Tutto il libro, infatti, ruota attorno a un concetto principale, quello del sé. L'accettazione di sé stessi, il fatto di cambiare quando si cresce, cosa si diventa e cosa ci si lascia alle spalle. Il modo in cui Carroll riesce a farci riflettere su questi punti è estremamente originale e, nonostante in diversi momenti del libro torni su temi apparentemente già affrontati e sviscerati, lo fa in maniera sempre nuova, andando ad aggiungere nuovi tasselli a un affresco sempre più grande e complesso.
Una volta terminata la lettura, volenti o nolenti, ci si ritrova arricchiti e accresciuti. Una lettura consigliata, perché speciale (come spesso sono i libri di Carroll) e perché non può lasciare indifferenti. Romanzi come questo non sono tanti, per questo è un delitto lasciarseli sfuggire. Inoltre, nonostante sia profondo e complesso, si legge tutto d'un fiato, come una avventura che ti lascia senza fiato e ti costringe a girare una pagina dopo l'altra di corsa.
Quindi, che si può volere di più?  

mercoledì 25 dicembre 2013

Neil Gaiman - "Sandman Omnibus Vol. 7 - Morte"

Autore: Neil Gaiman
Titolo: "Sandman Omnibus Vol. 7 - Morte"
Edizione: RW Lion
Anno: 2013

Con il ciclo di storie intitolato "The Wake" (in italiano "La Veglia", ma in inglese si presta a più interpretazioni), contenuto in questo settimo volume, si conclude la serie regolare di Sandman. Si tratta di una cavalcata lunga ben 75 numeri, ma capace di regalare momenti e storie quali nessun fumetto prima (e forse neanche dopo).
Difficile riuscire ad esprimere le emozioni che suscitano le ultime pagine, anche grazie al suo rivolgersi direttamente al lettore. Quel misto di malinconia e perdita, ma anche il fortissimo sentimento di nostalgia che già si prova quando ancora non si è del tutto detto addio ai personaggi.
Come già nei volumi precedenti, una parte fondamentale la svolgono le pagine di approfondimento. In particolare la bellissima intervista in cui Gaiman disvela, analizza, spiega i dietro le quinte di quest'ultimo ciclo di storie. I personaggi, le situazioni, i simboli vengono approfonditi. I riferimenti incrociati resi palesi anche a chi, non anglosassone, può non averli colti tutti o nella loro interezza.
Se già il fumetto, in sé e per sé, a una prima e più superficiale lettura, era stato capace di affascinare e commuovere, dopo la chiacchierata con Neil diviene (ancor più) capace di stupire e meravigliare.
Gaiman ripete più volte come, all'inizio della sua avventura con Sandman, tutto fosse più semplice. Tutto era facile, perché inventare cose nuove era una cosa automatica, ma dopo la metà era diventato sempre più difficile non ripetersi. I tempi di scrittura si allungavano e tutto diventava più macchinoso e meno naturale. Bisogna dire che leggendo "Le Eumenidi" e "La Veglia", però, non sembra assolutamente. Al contrario l'impressione è che sia proprio verso la fine che l'autore abbia toccato l'apice e abbia chiuso la serie proprio nel suo momento più alto.
Conclusione migliore credo non potesse esserci.
Sandman è a buon diritto annoverato come un capolavoro a tutto tondo. Una di quelle opere capaci di emanciparsi dal media sul quale e per il quale era stata pensata e realizzata per elevarsi a pura letteratura di altissimo livello. Una lettura consigliata e, perché no, obbligatoria, per tutti coloro che vogliano farsi una idea di cosa può essere e può dare un "fumetto". Ma anche un vero e proprio masterpiece della letteratura degli ultimi decenni, al di là di ogni barriera e convenzione.

martedì 5 novembre 2013

Ursula K. LeGuin - "La Leggenda di Earthsea"

Autore: Ursula K. LeGuin
Titolo: "La Leggenda di Earthsea"
Edizione: Narrativa Nord
Anno: 2007

Il ciclo di Earthsea è considerato uno dei grandi capisaldi della letteratura fantasy di ogni tempo. L'autrice stessa, Ursula K. LeGuin, è un vero e proprio nome sacro per la letteratura fantastica, dal fantasy alla fantascienza, essendo riuscita a lasciare il segno in ogni genere in cui si sia cimentata.
Eppure, quando si inizia "Il Mago di Earthsea", primo libro del ciclo, la sensazione è che ci sia qualcosa che non va, che qualcuno si sia sbagliato, che non sia possibile che questa saga sia divenuta così famosa, che sia da tutti considerata un capolavoro. Al di là della lunghezza di ogni capitolo (tutti piuttosto corti, sotto alle duecento pagine l'uno), infatti, è proprio lo stile con cui le vicende di Sparviero (o Ged, a seconda che siate o meno suoi amici) sono narrate a lasciare un po' perplessi. I fatti si susseguono a un ritmo addirittura rutilante, non si ha quasi il tempo di fare la conoscenza di un personaggio, che questo è già parte del passato. Spesso, addirittura, si ha l'impressione che alcune cose vengano lasciate in sospeso, o quantomeno non vengano sufficientemente approfondite, come se l'autrice avesse fretta di raccontare tutto. Come se lo spazio fosse limitato, il tempo ristretto e bisognasse fare di necessità virtù nel far star più cose possibili nel romanzo.
Il risultato è un libro che scorre fin troppo, con tanti avvenimenti, ma, apparentemente, poco spessore.
Si tratta, però, di una sensazione fallace, destinata a cambiare poco a poco che si prosegue nella lettura dei volumi successivi della saga, ciascuno capace di aggiungere uno o più tasselli a un unico grande affresco. Bisogna, però, attendere solo l'ultimo libro, "I Venti di Earthsea", per riuscire ad apprezzare il disegno di questo mondo nella sua interezza.
Sia "Le Tombe di Atuan" che "La Spiaggia Più Lontana", infatti, sembrano romanzi quasi del tutto slegati da quelli che li hanno preceduti. Distanti anni come ambientazione e con situazioni che appaiono a sé stanti, presentano solo qualche lieve accenno agli avvenimenti già trascorsi e non sembrano risentirne più di tanto. Solo "L'Isola del Drago" sembra fin da subito legato a "La Spiaggia Più Lontana", quasi ne fosse un diretto seguito, anche se in realtà prende ben presto una sua strada indipendente, focalizzando inoltre l'attenzione su nuovi personaggi come protagonisti.
Benché l'approfondimento, pressoché assente nel primo, arrivi nei libri successivi, si continua a non avere del tutto la percezione di cosa renda questi libri un tale capolavoro. I difetti, qui e là, infatti, non sembrano mancare: l'approfondimento dei personaggi e della loro psicologia, infatti, a volte è perfino eccessiva, con lunghi soliloqui o interi capitoli quasi didascalici, al limite del noioso. L'unico che sembra presentare un buon equilibrio tra ritmo degli avvenimenti e costruzione dei personaggi è il quarto "L'Isola del Drago", gli altri soffrono di una eccessiva preponderanza dell'uno o dell'altro aspetto.
Certo, gli elementi di originalità non mancano, soprattutto se si pensa a quando i romanzi son stati scritti: la prevalenza delle acque, il fatto che la stragrande maggioranza dei personaggi siano di pelle nera o quantomeno molto scura (anche se tutte le traduzioni cinematografiche e televisive sembrano dimenticarlo o ignorarlo), i passaggi sul ruolo e la dignità della donna in "L'Isola del Drago", gli accenni neanche troppo velati all'omosessualità in "L'Isola Più Lontana", tutta la filosofia e i concetti su cui si basa la magia di quel mondo, etc. Tutto questo, però, inizialmente non sembra calato in un contesto che possa del tutto giustificare l'appellativo di capolavoro, quasi fossero buone idee slegate tra loro.
Tutto questo cambia nel momento in cui si va a leggere il romanzo conclusivo del ciclo: "I Venti di Earthsea". Non solo ci si rende conto che ogni libro precedente serviva solo a portarti un passo più vicino alla conclusione, quindi non si trattava di vicende scollegate tra loro. Non solo ci si rende conto che l'affresco realizzato dalla LeGuin è molto più complesso di come apparisse inizialmente, questo grazie ai rimandi incrociati, e inizialmente impossibili da cogliere, tra i capitoli della saga. Ma è come se, improvvisamente, tutti i pezzi di un puzzle, che componevano solo un caos inestricabile, in cui si potevano ravvedere solo alcuni, sparuti, assembramenti coerenti al loro interno, prendessero il proprio posto dipingendo un'unico schema, presente fin dall'inizio.
In questo, oltre che nel messaggio vero e proprio che traspare una volta colto schema di fondo e, in particolare, la filosofia del mondo di Earthsea, consiste la vera grandiosità di questa saga. Un ciclo che più che giustamente ricopre un ruolo fondamentale nella storia della letteratura fantasy e che non posso che consigliare a tutti gli appassionati di questo genere. Il mio unico avviso è di non fermarsi al primo o al secondo libro, qual'ora se ne rimanesse un po' delusi, ma di continuare fino in fondo. Solo così si può apprezzare compiutamente quest'opera, evidentemente nata fin da subito come un unicum, con tutti livelli, i messaggi e i passaggi (anche complicati) che contiene.