Autore: George R. R. Martin
Titolo: "Il Banchetto dei Corvi"
Edizione: Mondadori - Urania Grandi Saghe
Anno: 2010
Con "Il Banchetto dei Corvi", quarto volume del Ciclo del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, facciamo la conoscenza di qualche nuovo "punto di vista". In alcuni casi personaggi nuovi, in altri casi personaggi che avevamo già incontrato nel percorso fino a qui, ma che, divenendo narratori, si svelano a noi sotto nuovi aspetti. Martin ci ha abituato, spesso, a come vedendo il mondo di Westeros con occhi diversi, cambi anche la percezione di cosa è giusto e cosa è sbagliato, al punto da riuscire a rendere comprensibili, quando non completamente accettabili o giustificabili, anche atti e scelte che fino a poco prima ci apparivano mostruosi. Così come alcuni fatti, narrati da un punto di vista o dall'altro, appaiono completamente diversi, proprio perché differente è il giudizio che ne dà colui che racconta, che quindi, implicitamente, tende a mostrare una verità differente.
Proprio in questa caratteristica, in questo totale relativismo della storia e dei personaggi, risiede una delle armi migliori dell'autore. Nulla è assoluto, poche sono le cose su cui tutti concordano.
Ma questo filtrare ogni vicenda attraverso gli occhi di un personaggio diverso, con il suo carattere specifico, le sue idee, le sue convinzioni e credenze, nonché le sue ambizioni e sogni, fa sì che non solo tutto il libro (e di riflesso tutta la saga) acquisisca automaticamente un livello in più di interesse, rispetto a una narrazione prettamente lineare, ma dona un enorme spessore proprio ai protagonisti che popolano questo mondo.
Un esempio lampante è stato, fin dal volume precedente, quello del personaggio di Jaime Lannister: trasformato da soggetto bidimensionale a protagonista a tutto tondo (non a caso ben presto divenuto uno dei preferiti dai lettori). Qualcosa di simile accade anche in questo "Il Banchetto dei Corvi", in cui a subire un approfondimento simile è la sorella gemella di Jaime: Cersei. Purtroppo per lei, però, vi è ben poco a cui aggrapparsi per farla risultare simpatica: nonostante i torti subiti, principalmente per il solo fatto di essere una donna in un mondo estremamente maschilista, non si riesce a parteggiare per lei. Le sue scelte estremamente egoiste, il suo atteggiamento sprezzante e di superiorità nei confronti di chiunque la circondi, la sua miopia delle conseguenze, ogni volta che prende una decisione, fanno sì che acquisisca certamente molto spessore, ma che divenga perfino più antipatica di prima.
Ma perché concentrarsi tanto, in questa recensione, su Cersei?
Principalmente perché è al suo punto di vista che viene demandata buona parte della narrazione di questo libro. Qualcosa di interessante accade a Dorne, Samwell vive le sue avventure, qualcuno ci lascia per sempre, Jaime sembra finalmente stia imparando a usare la testa, invece della spada per risolvere i problemi, Brienne si impegna in una ricerca forse infinita e senza speranza, Ditocorto prosegue con i suoi intrighi garantendosi gradualmente sempre più potere e molte, pessime, decisioni vengono prese dalle parti di Approdo del Re. Tanti piccoli colpi di scena punteggiano il libro e rendono la lettura sempre appassionante, ma in generale si ha l'impressione che questo sia un po' un volume di passaggio, in cui preparare il terreno per qualcosa che deve venire.
Certamente anche la scelta di suddividere i personaggi tra questo e il successivo (La Danza dei Draghi), non ha certo aiutato. Molto, tra l'altro, si potrebbe dire sull'effettiva utilità di questa decisione. A detta di Martin, infatti, ha preferito inserire metà dei personaggi per raccontare tutta la storia di ognuno di loro, invece che metà storia di tutti. Peccato che, come sempre è accaduto fino a ora, non vi sia alcun inizio e alcuna fine (se non con la morte) per i personaggi, ma solo un continuo scorrere che, per comodità, viene ripreso e interrotto poco prima o poco dopo. In questo caso, inoltre, non vi è neanche un grosso evento come una battaglia o la morte di un protagonista, a poter fare da spartiacque.
Probabilmente, dunque, se Martin avesse continuato come fatto fino a ora, portando avanti le vicende di tutti i personaggi (magari anche limitando un po' i pensieri ripetitivi e ridondanti di Cersei, per quanto utili a farne capire l'atteggiamento ossessivo), mescolando così quarto e quinto volume, ne sarebbe uscito un libro migliore. Anche così, però, è sicuramente una lettura consigliata a tutti gli appassionati della saga.
recensioni a mente libera di libri, fumetti, manga, graphic novel e, perchè no, magari anche qualche film e telefilm...
Avvertenze
- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -
mercoledì 10 giugno 2015
venerdì 10 aprile 2015
Valerio Evangelisti - "Il Sole dell'Avvenire - Chi ha del Ferro ha del Pane"
Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire - Chi ha del Ferro ha del Pane"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2014
In questo secondo volume, di tre, le vicende sembrano riprendere là dove le avevamo lasciate al termine del primo "Il Sole dell'Avvenire". I protagonisti non sono grandi uomini, generali, eroi, geni, non sono personalità che hanno fatto la storia. Sono, semmai, coloro che la storia l'hanno subita, in tutti i sensi. I personaggi di Evangelisti sono persone normali, comuni, che il più delle volte cercano solo di sopravvivere in un mondo e in una realtà che fa sempre i conti senza di loro.
Proprio nella profonda umanità dei protagonisti, tutti loro, sia da quelli di primo piano che quelli che si muovono un po' sullo sfondo, risiede una delle principali qualità di questo romanzo (così come del precedente). Alcuni sono simpatici, altri meno, ma tutti, con le loro qualità e, soprattutto, i loro difetti, ci sembrano fin da subito veri, reali, e non solo quei personaggi empatici, ma un po' bidimensionali, di tanti libri. Reglio, Eleuteria, CinCin, ma anche Canzio e tutti gli altri, escono letteralmente dalle pagine, si fanno carne e sangue davanti ai nostri occhi, divenendo vecchi amici che ci fanno ridere con le loro battute, ma anche preoccupare e piangere con le loro disgrazie.
Ma "Chi ha del Ferro ha del Pane", non è solo una storia di varia umanità, spesso di povertà e miseria. E' un romanzo che racconta la Storia, quella con la S maiuscola, ma lo fa dal punto di vista degli ultimi, di coloro che la storia ha il più delle volte escluso o dimenticato. Così non vediamo le stanze del potere, perfino durante i frequenti scioperi che punteggiano il volume, anche quelli più piccoli, mai una volta siamo dove vengono prese le decisioni. Tutte le scelte ci vengono riferite. E a noi lettori, così come ai protagonisti, non rimane che prenderne atto. Magari arrabbiarsi, decidere di opporsi e combattere o fuggire, ma mai veniamo interpellati o possiamo partecipare in alcun modo al processo decisionale.
Il lettore diviene, in questo modo, protagonista a sua volta del libro: fratello, figlio, amico, compagno dei personaggi che vi si muovono e che tanto patiscono.
Intanto, la Storia va avanti. Leggi vengono emanate, guerre vengono dichiarate. Ai protagonisti e a noi lettori non rimane che scendere a patti con tutto ciò. Ci si arrangia, si fa buon viso a cattivo gioco e, quando possibile, si cerca di portar a casa la pelle. Evangelisti ci risparmia il racconto in prima persona del massacro che fu la Prima Guerra Mondiale, preferisce, piuttosto, soffermarsi su ciò che avveniva in Italia, nelle campagne, e di come a mandare avanti tutto, dai campi coltivati alle fabbriche, fosse chi era rimasto: in prevalenza le donne.
Nonostante tutti i sacrifici, il romanzo ci mostra come per alcuni non vi sia mai riconoscenza, anzi, forse solo altre privazioni.
Siamo lontani come stile e come toni dai romanzi del ciclo di Eymerich che hanno reso celebre lo scrittore bolognese, eppure le similitudini sono molte più di quante si potrebbe credere. La fantascienza è spesso stata allegoria del presente e anche Evangelisti ha sempre usato il futuro per raccontare l'oggi. Nel ciclo de "Il Sole dell'Avvenire" non è diverso: non più il futuro, bensì il passato, ma sempre usato come lente per vedere, analizzare e comprendere meglio l'oggi. Le battaglie per i propri diritti dei lavoratori dell'inizio del 1900 non sono dissimili per motivazioni da quelle dei lavoratori dell'inizio del 2000: il precariato, le ore lavorative, uno stipendio minimo che consenta di vivere e non solo sopravvivere, il riconoscimento degli stessi diritti per tutti e stipendi uguali a fronte di uguali lavori svolti, sono questioni, purtroppo, estremamente attuali.
Valerio Evangelisti, dunque, ci consegna un romanzo e una saga quantomai contemporanei, nonostante siano ambientati quasi un secolo fa. Un libro e un ciclo di straordinaria forza, grazie ai personaggi di cui è costellato, e di grande valore educativo e sociale per ciò che racconta e mostra.
Se non fosse automatico per ogni studente odiare qualsiasi libro gli venga dato da leggere, questi volumi bisognerebbe studiarli a scuola.
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire - Chi ha del Ferro ha del Pane"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2014
In questo secondo volume, di tre, le vicende sembrano riprendere là dove le avevamo lasciate al termine del primo "Il Sole dell'Avvenire". I protagonisti non sono grandi uomini, generali, eroi, geni, non sono personalità che hanno fatto la storia. Sono, semmai, coloro che la storia l'hanno subita, in tutti i sensi. I personaggi di Evangelisti sono persone normali, comuni, che il più delle volte cercano solo di sopravvivere in un mondo e in una realtà che fa sempre i conti senza di loro.
Proprio nella profonda umanità dei protagonisti, tutti loro, sia da quelli di primo piano che quelli che si muovono un po' sullo sfondo, risiede una delle principali qualità di questo romanzo (così come del precedente). Alcuni sono simpatici, altri meno, ma tutti, con le loro qualità e, soprattutto, i loro difetti, ci sembrano fin da subito veri, reali, e non solo quei personaggi empatici, ma un po' bidimensionali, di tanti libri. Reglio, Eleuteria, CinCin, ma anche Canzio e tutti gli altri, escono letteralmente dalle pagine, si fanno carne e sangue davanti ai nostri occhi, divenendo vecchi amici che ci fanno ridere con le loro battute, ma anche preoccupare e piangere con le loro disgrazie.
Ma "Chi ha del Ferro ha del Pane", non è solo una storia di varia umanità, spesso di povertà e miseria. E' un romanzo che racconta la Storia, quella con la S maiuscola, ma lo fa dal punto di vista degli ultimi, di coloro che la storia ha il più delle volte escluso o dimenticato. Così non vediamo le stanze del potere, perfino durante i frequenti scioperi che punteggiano il volume, anche quelli più piccoli, mai una volta siamo dove vengono prese le decisioni. Tutte le scelte ci vengono riferite. E a noi lettori, così come ai protagonisti, non rimane che prenderne atto. Magari arrabbiarsi, decidere di opporsi e combattere o fuggire, ma mai veniamo interpellati o possiamo partecipare in alcun modo al processo decisionale.
Il lettore diviene, in questo modo, protagonista a sua volta del libro: fratello, figlio, amico, compagno dei personaggi che vi si muovono e che tanto patiscono.
Intanto, la Storia va avanti. Leggi vengono emanate, guerre vengono dichiarate. Ai protagonisti e a noi lettori non rimane che scendere a patti con tutto ciò. Ci si arrangia, si fa buon viso a cattivo gioco e, quando possibile, si cerca di portar a casa la pelle. Evangelisti ci risparmia il racconto in prima persona del massacro che fu la Prima Guerra Mondiale, preferisce, piuttosto, soffermarsi su ciò che avveniva in Italia, nelle campagne, e di come a mandare avanti tutto, dai campi coltivati alle fabbriche, fosse chi era rimasto: in prevalenza le donne.
Nonostante tutti i sacrifici, il romanzo ci mostra come per alcuni non vi sia mai riconoscenza, anzi, forse solo altre privazioni.
Siamo lontani come stile e come toni dai romanzi del ciclo di Eymerich che hanno reso celebre lo scrittore bolognese, eppure le similitudini sono molte più di quante si potrebbe credere. La fantascienza è spesso stata allegoria del presente e anche Evangelisti ha sempre usato il futuro per raccontare l'oggi. Nel ciclo de "Il Sole dell'Avvenire" non è diverso: non più il futuro, bensì il passato, ma sempre usato come lente per vedere, analizzare e comprendere meglio l'oggi. Le battaglie per i propri diritti dei lavoratori dell'inizio del 1900 non sono dissimili per motivazioni da quelle dei lavoratori dell'inizio del 2000: il precariato, le ore lavorative, uno stipendio minimo che consenta di vivere e non solo sopravvivere, il riconoscimento degli stessi diritti per tutti e stipendi uguali a fronte di uguali lavori svolti, sono questioni, purtroppo, estremamente attuali.
Valerio Evangelisti, dunque, ci consegna un romanzo e una saga quantomai contemporanei, nonostante siano ambientati quasi un secolo fa. Un libro e un ciclo di straordinaria forza, grazie ai personaggi di cui è costellato, e di grande valore educativo e sociale per ciò che racconta e mostra.
Se non fosse automatico per ogni studente odiare qualsiasi libro gli venga dato da leggere, questi volumi bisognerebbe studiarli a scuola.
martedì 30 dicembre 2014
Paolo Bacigalupi - "La Ragazza Meccanica"
Autore: Paolo Bacigalupi
Titolo: "La Ragazza Meccanica"
Edizione: Multiplayer.it
Anno: 2014
Paolo Bacigalupi è un autore che, almeno in Italia, è salito agli onori della cronaca solo in occasione della vittoria del Premio Hugo, proprio con questo “La Ragazza Meccanica”. In realtà Bacigalupi è piuttosto noto oltreoceano ed è autore di diversi libri, sia per adulti che per young-adult.
Sono rimasto un po’ sorpreso che un libro come “La Ragazza Meccanica”, vincitore del Premio Hugo (cioè la più alta e importante onorificenza per la letteratura fantastica in lingua inglese), sia stato acquistato e pubblicato in Italia da Multiplayer Edizioni. Sia chiaro, non ho nulla contro la casa editrice, ma sfogliandone il catalogo si può vedere come sia specializzata soprattutto in novelisations di videogiochi, quindi pubblicazioni con un tenore ben diverso da questo romanzo. Soprattutto a sorprendermi è stato il fatto che un libro che tanto interesse ha suscitano oltreoceano, presentato come una vera e propria rivoluzione nella fantascienza, non fosse uscito ben prima presso altre case editrici più specializzate, come Urania Mondadori, Fanucci, Editrice Nord, etc. di solito molto attente al mercato nord-americano.
Ma veniamo al libro in questione.
Personalmente non ho particolarmente amato lo stile di Bacigalupi, ma, qui, bisogna purtroppo aprire una nuova parentesi. Avendo avuto tra le mani solo l’edizione italiana e non potendola confrontare con l’originale, non posso dire fino a che punto alcune scelte siano opera dell’autore e quali, invece, non magari frutto della traduzione. Il dubbio mi viene soprattutto a causa di una serie di scelte dell’editore italiano che mi vedono del tutto in disaccordo.
La carta con cui è realizzato il libro è molto dura, così come la rilegatura. L’impressione è di avere tra le mani un volume che sarebbe andato benissimo se avesse avuto la metà della pagine, ma che con queste dimensioni diventa troppo rigido, difficile da aprire senza il rischio di spaccare la colla della rilegatura. Una critica, inoltre, è necessario farla alla fase di controllo dei refusi prima di andare in stampa che, ci sembra, in questo caso è evidentemente stata del tutto assente. Non c’è praticamente pagina in cui non vi sia un errore di battitura, una parola storpiata, uno spazio in più o in meno, qualche accento o apostrofo dimenticato per strada. Infine, ma questo è gusto piuttosto personale, anche la scelta dei caratteri dell’impaginazione (titolo, autore, numero delle pagine in alto e in basso) è stata sbagliata.
Tutte scelte che, di per sé, sarebbero un difetto minimo, ma sommate insieme comunicano una certa mancanza di cura del prodotto.
Cosa non è una scelta, ma un errori veri e propri, però, sono diversi passaggi della traduzione del libro. Per fare un esempio su tutti, il personaggio di Kanna rimane per praticamente tutto il libro in una sorta di limbo sessuale, passando spesso e volentieri da femmina a maschio e viceversa. Succede subito all’inizio, in cui si è quasi portati a pensare che sia una scelta stilistica voluta in attesa di scoprire qualche rivelazione su di lei, quasi scompare nella parte centrale del libro, per poi riappare di nuovo alla fine. Quel continuo riferirsi a lei con “gli” invece di “le”, inoltre, fa pure temere che chi ha eseguito la traduzione non sappia fino in fondo l’italiano.
Non sappiamo, invece, se è una scelta della traduzione o dell’autore la scrittura tutta al presente, una scelta che ai più potrebbe far storcere il naso in quanto sembra togliere pathos a tutta la narrazione. Sospettiamo, comunque, che di chiunque sia stata la decisione, sia probabilmente stata influenzata dal notevole successo che stanno riscuotendo negli ultimi tempi diversi young-adult scritti proprio con questo stile (come la trilogia di “Hunger Games”, etc.).
Dal punto di vista dei contenuti, invece, bastano poche pagine per capire cosa abbia colpito i giudici del Premio Hugo per deliberare il vincitore. “La Ragazza Meccanica” è un fuoco di fila di invenzioni, di concetti e di situazioni effettivamente originali e innovativi. Il mondo in cui si viene sbalzati è ampissimo, complesso, estremamente realistico nelle descrizioni e plausibile nelle dinamiche che descrive. Risulta fin da subito evidente che prima della stesura del libro deve esserci stato un enorme impegno in fase di documentazione, in primis sulla Tailandia, e, a seguire, un grande lavoro per incastrare e far combaciare tutti i pezzi di quel gigantesco affresco che è la realtà del futuro de “La Ragazza Meccanica”.
La storia in sé, con i suoi tanti colpi di scena, ma, soprattutto, con i suoi tanti tradimenti, riesce a tenere attaccati al libro, mai certi di cosa succederà in seguito. Più volte, infatti, la vicenda sembra instradarsi in percorsi già tracciati, classici, quasi scontati, ma solo per essere ben presto capovolta. Lo stesso dicasi per i personaggi sia principali che secondari. Di stereotipati ce ne sono ben pochi, tutti quelli che agiscono attivamente, anche se a una prima occhiata appaiono piatti e bidimensionali, ben presto mostrano una complessità e tutta una serie di motivazioni che giustificano le loro azioni. Per quanto per alcuni risulti sempre difficile riuscire a parteggiare, a un certo punto non si può negare che abbiano uno scopo e che, guardando le cose dal loro punto di vista, tutto sommato ciò che fanno non è il male.
Per assurdo, tra tanti personaggi tridimensionali, l’unica a sembrare meno caratterizzata, per buona parte del libro, è proprio colei che dà il titolo al romanzo. Emiko sembra la classica ragazza debole e indifesa, in grado di riscattarsi da una vita di soprusi solo attraverso l’intervento salvatore di un uomo che si innamori di lei, capace di vedere oltre le apparenze.
Le cose non andranno esattamente così, per fortuna, ma preferiamo non rivelare di più per non togliere la sorpresa ai lettori.
In definitiva “La Ragazza Meccanica” è un gran bel romanzo, pieno di idee e di inventiva che non meraviglia abbia vinto il Premio Hugo. L’edizione italiana è, purtroppo, falcidiata da diverse pecche, sia nella cura editoriale che meramente realizzativi, ciò nonostante non possiamo assolutamente esimerci dal consigliarne la lettura.
Titolo: "La Ragazza Meccanica"
Edizione: Multiplayer.it
Anno: 2014
Paolo Bacigalupi è un autore che, almeno in Italia, è salito agli onori della cronaca solo in occasione della vittoria del Premio Hugo, proprio con questo “La Ragazza Meccanica”. In realtà Bacigalupi è piuttosto noto oltreoceano ed è autore di diversi libri, sia per adulti che per young-adult.
Sono rimasto un po’ sorpreso che un libro come “La Ragazza Meccanica”, vincitore del Premio Hugo (cioè la più alta e importante onorificenza per la letteratura fantastica in lingua inglese), sia stato acquistato e pubblicato in Italia da Multiplayer Edizioni. Sia chiaro, non ho nulla contro la casa editrice, ma sfogliandone il catalogo si può vedere come sia specializzata soprattutto in novelisations di videogiochi, quindi pubblicazioni con un tenore ben diverso da questo romanzo. Soprattutto a sorprendermi è stato il fatto che un libro che tanto interesse ha suscitano oltreoceano, presentato come una vera e propria rivoluzione nella fantascienza, non fosse uscito ben prima presso altre case editrici più specializzate, come Urania Mondadori, Fanucci, Editrice Nord, etc. di solito molto attente al mercato nord-americano.
Ma veniamo al libro in questione.
Personalmente non ho particolarmente amato lo stile di Bacigalupi, ma, qui, bisogna purtroppo aprire una nuova parentesi. Avendo avuto tra le mani solo l’edizione italiana e non potendola confrontare con l’originale, non posso dire fino a che punto alcune scelte siano opera dell’autore e quali, invece, non magari frutto della traduzione. Il dubbio mi viene soprattutto a causa di una serie di scelte dell’editore italiano che mi vedono del tutto in disaccordo.
La carta con cui è realizzato il libro è molto dura, così come la rilegatura. L’impressione è di avere tra le mani un volume che sarebbe andato benissimo se avesse avuto la metà della pagine, ma che con queste dimensioni diventa troppo rigido, difficile da aprire senza il rischio di spaccare la colla della rilegatura. Una critica, inoltre, è necessario farla alla fase di controllo dei refusi prima di andare in stampa che, ci sembra, in questo caso è evidentemente stata del tutto assente. Non c’è praticamente pagina in cui non vi sia un errore di battitura, una parola storpiata, uno spazio in più o in meno, qualche accento o apostrofo dimenticato per strada. Infine, ma questo è gusto piuttosto personale, anche la scelta dei caratteri dell’impaginazione (titolo, autore, numero delle pagine in alto e in basso) è stata sbagliata.
Tutte scelte che, di per sé, sarebbero un difetto minimo, ma sommate insieme comunicano una certa mancanza di cura del prodotto.
Cosa non è una scelta, ma un errori veri e propri, però, sono diversi passaggi della traduzione del libro. Per fare un esempio su tutti, il personaggio di Kanna rimane per praticamente tutto il libro in una sorta di limbo sessuale, passando spesso e volentieri da femmina a maschio e viceversa. Succede subito all’inizio, in cui si è quasi portati a pensare che sia una scelta stilistica voluta in attesa di scoprire qualche rivelazione su di lei, quasi scompare nella parte centrale del libro, per poi riappare di nuovo alla fine. Quel continuo riferirsi a lei con “gli” invece di “le”, inoltre, fa pure temere che chi ha eseguito la traduzione non sappia fino in fondo l’italiano.
Non sappiamo, invece, se è una scelta della traduzione o dell’autore la scrittura tutta al presente, una scelta che ai più potrebbe far storcere il naso in quanto sembra togliere pathos a tutta la narrazione. Sospettiamo, comunque, che di chiunque sia stata la decisione, sia probabilmente stata influenzata dal notevole successo che stanno riscuotendo negli ultimi tempi diversi young-adult scritti proprio con questo stile (come la trilogia di “Hunger Games”, etc.).
Dal punto di vista dei contenuti, invece, bastano poche pagine per capire cosa abbia colpito i giudici del Premio Hugo per deliberare il vincitore. “La Ragazza Meccanica” è un fuoco di fila di invenzioni, di concetti e di situazioni effettivamente originali e innovativi. Il mondo in cui si viene sbalzati è ampissimo, complesso, estremamente realistico nelle descrizioni e plausibile nelle dinamiche che descrive. Risulta fin da subito evidente che prima della stesura del libro deve esserci stato un enorme impegno in fase di documentazione, in primis sulla Tailandia, e, a seguire, un grande lavoro per incastrare e far combaciare tutti i pezzi di quel gigantesco affresco che è la realtà del futuro de “La Ragazza Meccanica”.
La storia in sé, con i suoi tanti colpi di scena, ma, soprattutto, con i suoi tanti tradimenti, riesce a tenere attaccati al libro, mai certi di cosa succederà in seguito. Più volte, infatti, la vicenda sembra instradarsi in percorsi già tracciati, classici, quasi scontati, ma solo per essere ben presto capovolta. Lo stesso dicasi per i personaggi sia principali che secondari. Di stereotipati ce ne sono ben pochi, tutti quelli che agiscono attivamente, anche se a una prima occhiata appaiono piatti e bidimensionali, ben presto mostrano una complessità e tutta una serie di motivazioni che giustificano le loro azioni. Per quanto per alcuni risulti sempre difficile riuscire a parteggiare, a un certo punto non si può negare che abbiano uno scopo e che, guardando le cose dal loro punto di vista, tutto sommato ciò che fanno non è il male.
Per assurdo, tra tanti personaggi tridimensionali, l’unica a sembrare meno caratterizzata, per buona parte del libro, è proprio colei che dà il titolo al romanzo. Emiko sembra la classica ragazza debole e indifesa, in grado di riscattarsi da una vita di soprusi solo attraverso l’intervento salvatore di un uomo che si innamori di lei, capace di vedere oltre le apparenze.
Le cose non andranno esattamente così, per fortuna, ma preferiamo non rivelare di più per non togliere la sorpresa ai lettori.
In definitiva “La Ragazza Meccanica” è un gran bel romanzo, pieno di idee e di inventiva che non meraviglia abbia vinto il Premio Hugo. L’edizione italiana è, purtroppo, falcidiata da diverse pecche, sia nella cura editoriale che meramente realizzativi, ciò nonostante non possiamo assolutamente esimerci dal consigliarne la lettura.
martedì 16 settembre 2014
Andreas Eschbach - "Lo Specchio di Dio"
Autore: Andreas Eschbach
Titolo: "Lo Specchio di Dio"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
A tre anni di distanza dal capolavoro “Miliardi di Tappeti di Capelli”, che lo ha catapultato al centro dell’attenzione mondiale della letteratura di fantascienza, Andreas Eschbach dà alle stampe questo “Lo Specchio di Dio”.
Si tratta di un libro molto diverso da quello che gli ha dato la notorietà. Non più fantascienza pura, ambientata nello spazio profondo, tra mondi e galassie distantissime da noi (non solo geograficamente), bensì un romanzo che si svolge sulla terra, in un domani che sembra già oggi. “Lo Specchio di Dio”, anzi, è soprattutto un thriller, per quanto si poggi su basi assolutamente fantascientifiche.
Cosa succederebbe se uno scavo archeologico in palestina riportasse alla luce, sepolto duemila anni fa, il libretto di istruzioni di una videocamera che non è ancora stata neanche lanciata sul mercato? Davvero qualcuno ha viaggiato nel tempo ed è tornato indietro fino al tempo di Gesù o è solo un’elaborata truffa? A che scopo, poi? E se davvero qualcuno è tornato indietro, questo significa forse che esiste, da qualche parte, una videocamera che ha ripreso Gesù Cristo?
Questi sono gli interrogativi in cui Eschbach ci catapulta fin dalle prime pagine del libro.
I personaggi sono diversi, alcuni ben caratterizzati e capaci di riservare anche qualche sorpresa, qualcuno, invece, purtroppo un po’ stereotipato.
L’intreccio, sulla carta molto interessante, in realtà, all’inizio, arranca un po’. Troppo spazio, infatti, viene probabilmente lasciato allo scrittore di fantascienza tedesco (forse una auto-citazione di Eschbach?) assunto come consulente e alle sue elucubrazioni, nonché al racconto del background di tutti i personaggi. Troppe domande senza risposta e senza reale costrutto nello sviluppo della trama, troppe informazioni in una volta sola, che rischiano di rallentare inutilmente il ritmo della narrazione.
Passato questo primo scoglio, però, finalmente il romanzo prende velocità e le vicende iniziano a susseguirsi a ritmo frenetico fino a diventare una vera e propria caccia al tesoro in gara contro il tempo e con diversi partecipanti. Tra inseguimenti, indizi, false piste, pedinamenti e scontri a fuoco il romanzo decolla.
Questo, più o meno, fino a tre quarti, quando nuovamente i ritmi calano, rallentano quasi fino a fermarsi, per poi riservare il colpo di coda finale. Un finale che, nel suo essere quanto di più classicamente scontato ci si potrebbe aspettare, in realtà lascia il lettore con il sorriso sulle labbra.
“Lo Specchio di Dio” è un romanzo molto diverso e molto distante, anche per qualità, rispetto a “Miliardi di Tappeti di Capelli”. Certamente non è destinato a lasciare il segno come il libro d’esordio dello scrittore tedesco, né si tratta di qualcosa di particolarmente nuovo e originale. Già molti scrittori si sono soffermati sul tema del viaggio nel tempo accostato alla figura di Gesù Cristo, sia in romanzi che in racconti (come Philip K. Dick o Michael Moorcock, per citare i primi due che mi vengono in mente). L’idea iniziale di Eschbach, però, è buona e lo sviluppo della vicenda altrettanto. Forse sarebbe stato apprezzabile un maggiore coraggio nell’osare nel finale, ma “Lo Specchio di Dio” è pur sempre una validissima lettura, sicuramente consigliabile sia a chi ama la fantascienza, che ai seguaci del thriller.
Titolo: "Lo Specchio di Dio"
Edizione: Fanucci
Anno: 2011
A tre anni di distanza dal capolavoro “Miliardi di Tappeti di Capelli”, che lo ha catapultato al centro dell’attenzione mondiale della letteratura di fantascienza, Andreas Eschbach dà alle stampe questo “Lo Specchio di Dio”.
Si tratta di un libro molto diverso da quello che gli ha dato la notorietà. Non più fantascienza pura, ambientata nello spazio profondo, tra mondi e galassie distantissime da noi (non solo geograficamente), bensì un romanzo che si svolge sulla terra, in un domani che sembra già oggi. “Lo Specchio di Dio”, anzi, è soprattutto un thriller, per quanto si poggi su basi assolutamente fantascientifiche.
Cosa succederebbe se uno scavo archeologico in palestina riportasse alla luce, sepolto duemila anni fa, il libretto di istruzioni di una videocamera che non è ancora stata neanche lanciata sul mercato? Davvero qualcuno ha viaggiato nel tempo ed è tornato indietro fino al tempo di Gesù o è solo un’elaborata truffa? A che scopo, poi? E se davvero qualcuno è tornato indietro, questo significa forse che esiste, da qualche parte, una videocamera che ha ripreso Gesù Cristo?
Questi sono gli interrogativi in cui Eschbach ci catapulta fin dalle prime pagine del libro.
I personaggi sono diversi, alcuni ben caratterizzati e capaci di riservare anche qualche sorpresa, qualcuno, invece, purtroppo un po’ stereotipato.
L’intreccio, sulla carta molto interessante, in realtà, all’inizio, arranca un po’. Troppo spazio, infatti, viene probabilmente lasciato allo scrittore di fantascienza tedesco (forse una auto-citazione di Eschbach?) assunto come consulente e alle sue elucubrazioni, nonché al racconto del background di tutti i personaggi. Troppe domande senza risposta e senza reale costrutto nello sviluppo della trama, troppe informazioni in una volta sola, che rischiano di rallentare inutilmente il ritmo della narrazione.
Passato questo primo scoglio, però, finalmente il romanzo prende velocità e le vicende iniziano a susseguirsi a ritmo frenetico fino a diventare una vera e propria caccia al tesoro in gara contro il tempo e con diversi partecipanti. Tra inseguimenti, indizi, false piste, pedinamenti e scontri a fuoco il romanzo decolla.
Questo, più o meno, fino a tre quarti, quando nuovamente i ritmi calano, rallentano quasi fino a fermarsi, per poi riservare il colpo di coda finale. Un finale che, nel suo essere quanto di più classicamente scontato ci si potrebbe aspettare, in realtà lascia il lettore con il sorriso sulle labbra.
“Lo Specchio di Dio” è un romanzo molto diverso e molto distante, anche per qualità, rispetto a “Miliardi di Tappeti di Capelli”. Certamente non è destinato a lasciare il segno come il libro d’esordio dello scrittore tedesco, né si tratta di qualcosa di particolarmente nuovo e originale. Già molti scrittori si sono soffermati sul tema del viaggio nel tempo accostato alla figura di Gesù Cristo, sia in romanzi che in racconti (come Philip K. Dick o Michael Moorcock, per citare i primi due che mi vengono in mente). L’idea iniziale di Eschbach, però, è buona e lo sviluppo della vicenda altrettanto. Forse sarebbe stato apprezzabile un maggiore coraggio nell’osare nel finale, ma “Lo Specchio di Dio” è pur sempre una validissima lettura, sicuramente consigliabile sia a chi ama la fantascienza, che ai seguaci del thriller.
giovedì 3 aprile 2014
Valerio Evangelisti - "Il Sole dell'Avvenire"
Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2013
Valerio Evangelisti è considerato lo scrittore di fantascienza più importante d’Italia, soprattutto grazie al suo ciclo dell’Inquisitore Eymerich. Ma l’autore bolognese, nella sua carriera, non si è confrontato solo con la fantascienza o il fantastico in generale. Tra i suoi libri troviamo il western di “Antracite”, l’avventura del suo ciclo dei pirati, ma anche il vero e proprio romanzo storico. Storie che usano, quando serve, personaggi inventati, ma profondamente ancorate nella realtà, in grado di far appassionare il lettore alle vicende narrate e, al contempo, di mostrargli uno spaccato del passato, di mettere in luce dinamiche sociali e politiche che, in molti casi, hanno contribuito a creare il mondo in cui viviamo oggi.
Romanzi come “Noi Saremo Tutto” e “One Big Union”, sui sindacati negli Stati Uniti, o “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato”, sui rapporti tra il Messico e gli Stati Uniti, non sono solo opere di narrativa entrate nel cuore di migliaia di lettori, ma libri che andrebbero fatti leggere nelle scuole.
Da poco ce n’è un altro destinato a entrare nel gruppo.
“Il Sole dell’Avvenire”, ultimo nato e primo di una trilogia, lascia da parte le vicende d’oltreoceano e si concentra sui fatti di casa nostra. Protagonisti sono, infatti, i braccianti, i contadini e i mezzadri romagnoli alla fine del 1800. Un vero e proprio romanzo generazionale, protagonista una famiglia che attraverserà, purtroppo non indenne, quegli anni, permettendoci uno scorcio della vita a quel tempo e di farci rendere conto che, certe cose, sembrano non cambiare mai.
Fin dalle prime pagine facciamo la conoscenza di Attilio Verardi, un uomo semplice, che si arrangia come può tra mille piccoli lavoretti occasionali o stagionali, ma con una incrollabile fede garibaldina. È innamorato di Rosa, ricambiato, ma osteggiato dalla famiglia di lei, mezzadri certamente non ricchi, ma che considerano coloro che si trovano sotto di loro nella scala sociale come dei disgraziati e degli scansafatiche, quasi fosse una loro scelta quella di vivere nella povertà.
Nonostante tutte queste differenze, i due riusciranno a sposarsi, ma non sarà che l’inizio di una serie, apparentemente infinita, di sciagure, di ingiustizie e di sofferenze, per loro e i loro famigliari.
“Il Sole dell’Avvenire” si differenzia rispetto ad alcuni libri del recente passato di Evangelisti anche per la scelta dei protagonisti. Nel ciclo dei pirati, ma anche in “Noi Saremo Tutto” o “One Big Union”, l’autore bolognese era stato costretto a scegliere dei protagonisti che fossero dei doppiogiochisti, dei traditori, delle spie. Personaggi, dunque, in cui era difficile immedesimarsi, ma ottimi per poter raccontare ciò che avveniva da entrambi i lati delle barricate. Per quanto la lettura procedesse spedita e le vicende fossero appassionanti, sembrava spesso mancare qualcosa, cioè una qualche forma di empatia nei confronti dei protagonisti, troppo viscidi od odiosi per poterla ispirare. Nel caso de “Il Sole dell’Avvenire”, invece, fin dalle prime pagine veniamo catturati dall’estrema umanità dei protagonisti, personaggi a tutto tondo, ma anche positivi, buoni, vessati da troppe sfortune per le loro fragili spalle e che sembrano dover crollare da un istante all’altro. Non si può non provare un immediato trasporto per Attilio, per Rosa, per il loro figlio Canzio, ma questo porta con sé un inconveniente di altro tipo.
Non ho, infatti, problemi ad ammettere di averci messo molto più del solito per completare la lettura di questo libro, rispetto ai miei standard. Il motivo è semplice: nonostante la bellezza del romanzo, delle ricostruzioni, dei personaggi (o forse proprio per quello), a volte mi era insopportabile l’idea di leggere di altre ingiustizie ai danni dei protagonisti, verso i quali provavo un trasporto non dissimile da persone vere.
Ma i meriti di questa opera di Valerio Evangelisti non si esauriscono nell’aver creato personaggi che entrano, letteralmente, nel cuore dei lettori, al contrario. Come sempre lo scrittore bolognese è attento alle dinamiche sociali e politiche del mondo contemporaneo. Nei suoi libri di fantascienza ci ha spesso mostrato elucubrazioni su ciò a cui avrebbero portato, estremizzate, certe scelte, certi movimenti attuali. L’allegoria, che era critica sociale e politica, tipica dei romanzieri sci-fi di maggiore spessore come Dick, Heinlein, Sturgeon, etc. Evangelisti la adatta anche ai romanzi d’avventura e storici. Per chiarirci il suo messaggio lui sceglie di usare anche il passato, come a volerci dimostrare che alcune cose non sono una novità, ma solo un riproporsi di ciò che era già avvenuto in passato e che per questo bisogna essere sempre ben vigili.
Proprio questo fa anche con “Il Sole dell’Avvenire”: i braccianti, sempre alla ricerca di un lavoro che, purtroppo, è solo stagionale o a scadenza, altro non sono che i precari di oggi. Lavoratori senza garanzie per il domani, che si adattano a fare un po’ quello che trovano, spesso disprezzati perfino da quei lavoratori che han qualche diritto in più, troppo miopi per accorgersi di non essere intoccabili e che, in realtà, si è tutti sulla stessa barca ed è solo questione di tempo prima di finire schiacciati anche loro. Una critica forte allo spezzettamento dei lavoratori, più interessati a difendere il proprio orticello che a fare fronte comune, come convinti che, se se ne stanno buoni e zitti in un angolo, forse se la prenderanno solo con gli altri. Ma Evangelisti non si ferma qui, perché sceglie così accuratamente il periodo storico in cui ambientare il libro, che spesso le pagine sembrano il quotidiano preso stamattina in edicola. La crisi, la mancanza di lavoro, il debito pubblico alle stelle, tutto uguale ieri come oggi. Così come uguali sembrano essere le riforme, sbagliate, messe in campo: tasse sempre più alte che vanno a colpire i ceti meno abbienti, i lavoratori, i dipendenti; maggiore precarizzazione per creare, ufficiosamente, più posti di lavoro; tagli delle tasse ai ricchi, con l’illusione che questo li spinga ad assumere di più. Il risultato, oggi come allora, è lo stesso: un progressivo allargamento della forbice tra poveri e ricchi, con i primi sempre più poveri e i secondi sempre più ricchi, un aumento esponenziale della disoccupazione, una crisi che non sembra avere fine o soluzione e un debito pubblico per nulla sotto controllo.
Quello che manca, oggi, è un movimento che cerchi di radunare e accogliere tutte queste anime così diverse, per fare fronte comune e proporre soluzioni diverse alla crisi. Nel libro grande importanza viene ricoperta dal neo-nato partito socialista che, in varie incarnazioni, a quel tempo muoveva i suoi primi passi e, per certi versi, cercava ancora una sua vera e propria identità, tra le spinte dei repubblicani da una parte e degli anarchici dall’altra. Oggi, e in realtà già allora, come ci racconta il libro, non abbiamo nulla di simile. Mille mila partiti, movimenti e rappresentanze, tutti che si muovono da soli, in una sterile guerra tra poveri, e non riescono ad avere una visione d’insieme. È indubbiamente anche questa una delle maggiori critiche presenti nel libro, oltre a quelle rivolte al sistema.
Per concludere “Il Sole dell’Avvenire” è uno dei libri più belli, toccanti ed istruttivi scritti da Valerio Evangelisti. Se siete suoi fan dovete leggerlo. Se non avete mai letto nulla di suo, cominciate pure da questo e vi innamorerete di questi personaggi e di questa storia. I due romanzi “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato” sappiamo che sono stati adottati, in Messico, come libri di testo per raccontare la storia del loro paese. Sarebbe bellissimo se simile destino avesse anche la trilogia de “Il Sole dell’Avvenire” in Italia. Forse, per una volta, gli studenti italiani si appassionerebbero alle letture scolastiche, soprattutto unirebbero l’utile al dilettevole imparando qualcosa d’importante sulla nostra storia e, perché no, imparerebbero anche un po’ di più a pensare con la loro testa.
Titolo: "Il Sole dell'Avvenire"
Edizione: Mondadori - Strade Blu
Anno: 2013
Valerio Evangelisti è considerato lo scrittore di fantascienza più importante d’Italia, soprattutto grazie al suo ciclo dell’Inquisitore Eymerich. Ma l’autore bolognese, nella sua carriera, non si è confrontato solo con la fantascienza o il fantastico in generale. Tra i suoi libri troviamo il western di “Antracite”, l’avventura del suo ciclo dei pirati, ma anche il vero e proprio romanzo storico. Storie che usano, quando serve, personaggi inventati, ma profondamente ancorate nella realtà, in grado di far appassionare il lettore alle vicende narrate e, al contempo, di mostrargli uno spaccato del passato, di mettere in luce dinamiche sociali e politiche che, in molti casi, hanno contribuito a creare il mondo in cui viviamo oggi.
Romanzi come “Noi Saremo Tutto” e “One Big Union”, sui sindacati negli Stati Uniti, o “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato”, sui rapporti tra il Messico e gli Stati Uniti, non sono solo opere di narrativa entrate nel cuore di migliaia di lettori, ma libri che andrebbero fatti leggere nelle scuole.
Da poco ce n’è un altro destinato a entrare nel gruppo.
“Il Sole dell’Avvenire”, ultimo nato e primo di una trilogia, lascia da parte le vicende d’oltreoceano e si concentra sui fatti di casa nostra. Protagonisti sono, infatti, i braccianti, i contadini e i mezzadri romagnoli alla fine del 1800. Un vero e proprio romanzo generazionale, protagonista una famiglia che attraverserà, purtroppo non indenne, quegli anni, permettendoci uno scorcio della vita a quel tempo e di farci rendere conto che, certe cose, sembrano non cambiare mai.
Fin dalle prime pagine facciamo la conoscenza di Attilio Verardi, un uomo semplice, che si arrangia come può tra mille piccoli lavoretti occasionali o stagionali, ma con una incrollabile fede garibaldina. È innamorato di Rosa, ricambiato, ma osteggiato dalla famiglia di lei, mezzadri certamente non ricchi, ma che considerano coloro che si trovano sotto di loro nella scala sociale come dei disgraziati e degli scansafatiche, quasi fosse una loro scelta quella di vivere nella povertà.
Nonostante tutte queste differenze, i due riusciranno a sposarsi, ma non sarà che l’inizio di una serie, apparentemente infinita, di sciagure, di ingiustizie e di sofferenze, per loro e i loro famigliari.
“Il Sole dell’Avvenire” si differenzia rispetto ad alcuni libri del recente passato di Evangelisti anche per la scelta dei protagonisti. Nel ciclo dei pirati, ma anche in “Noi Saremo Tutto” o “One Big Union”, l’autore bolognese era stato costretto a scegliere dei protagonisti che fossero dei doppiogiochisti, dei traditori, delle spie. Personaggi, dunque, in cui era difficile immedesimarsi, ma ottimi per poter raccontare ciò che avveniva da entrambi i lati delle barricate. Per quanto la lettura procedesse spedita e le vicende fossero appassionanti, sembrava spesso mancare qualcosa, cioè una qualche forma di empatia nei confronti dei protagonisti, troppo viscidi od odiosi per poterla ispirare. Nel caso de “Il Sole dell’Avvenire”, invece, fin dalle prime pagine veniamo catturati dall’estrema umanità dei protagonisti, personaggi a tutto tondo, ma anche positivi, buoni, vessati da troppe sfortune per le loro fragili spalle e che sembrano dover crollare da un istante all’altro. Non si può non provare un immediato trasporto per Attilio, per Rosa, per il loro figlio Canzio, ma questo porta con sé un inconveniente di altro tipo.
Non ho, infatti, problemi ad ammettere di averci messo molto più del solito per completare la lettura di questo libro, rispetto ai miei standard. Il motivo è semplice: nonostante la bellezza del romanzo, delle ricostruzioni, dei personaggi (o forse proprio per quello), a volte mi era insopportabile l’idea di leggere di altre ingiustizie ai danni dei protagonisti, verso i quali provavo un trasporto non dissimile da persone vere.
Ma i meriti di questa opera di Valerio Evangelisti non si esauriscono nell’aver creato personaggi che entrano, letteralmente, nel cuore dei lettori, al contrario. Come sempre lo scrittore bolognese è attento alle dinamiche sociali e politiche del mondo contemporaneo. Nei suoi libri di fantascienza ci ha spesso mostrato elucubrazioni su ciò a cui avrebbero portato, estremizzate, certe scelte, certi movimenti attuali. L’allegoria, che era critica sociale e politica, tipica dei romanzieri sci-fi di maggiore spessore come Dick, Heinlein, Sturgeon, etc. Evangelisti la adatta anche ai romanzi d’avventura e storici. Per chiarirci il suo messaggio lui sceglie di usare anche il passato, come a volerci dimostrare che alcune cose non sono una novità, ma solo un riproporsi di ciò che era già avvenuto in passato e che per questo bisogna essere sempre ben vigili.
Proprio questo fa anche con “Il Sole dell’Avvenire”: i braccianti, sempre alla ricerca di un lavoro che, purtroppo, è solo stagionale o a scadenza, altro non sono che i precari di oggi. Lavoratori senza garanzie per il domani, che si adattano a fare un po’ quello che trovano, spesso disprezzati perfino da quei lavoratori che han qualche diritto in più, troppo miopi per accorgersi di non essere intoccabili e che, in realtà, si è tutti sulla stessa barca ed è solo questione di tempo prima di finire schiacciati anche loro. Una critica forte allo spezzettamento dei lavoratori, più interessati a difendere il proprio orticello che a fare fronte comune, come convinti che, se se ne stanno buoni e zitti in un angolo, forse se la prenderanno solo con gli altri. Ma Evangelisti non si ferma qui, perché sceglie così accuratamente il periodo storico in cui ambientare il libro, che spesso le pagine sembrano il quotidiano preso stamattina in edicola. La crisi, la mancanza di lavoro, il debito pubblico alle stelle, tutto uguale ieri come oggi. Così come uguali sembrano essere le riforme, sbagliate, messe in campo: tasse sempre più alte che vanno a colpire i ceti meno abbienti, i lavoratori, i dipendenti; maggiore precarizzazione per creare, ufficiosamente, più posti di lavoro; tagli delle tasse ai ricchi, con l’illusione che questo li spinga ad assumere di più. Il risultato, oggi come allora, è lo stesso: un progressivo allargamento della forbice tra poveri e ricchi, con i primi sempre più poveri e i secondi sempre più ricchi, un aumento esponenziale della disoccupazione, una crisi che non sembra avere fine o soluzione e un debito pubblico per nulla sotto controllo.
Quello che manca, oggi, è un movimento che cerchi di radunare e accogliere tutte queste anime così diverse, per fare fronte comune e proporre soluzioni diverse alla crisi. Nel libro grande importanza viene ricoperta dal neo-nato partito socialista che, in varie incarnazioni, a quel tempo muoveva i suoi primi passi e, per certi versi, cercava ancora una sua vera e propria identità, tra le spinte dei repubblicani da una parte e degli anarchici dall’altra. Oggi, e in realtà già allora, come ci racconta il libro, non abbiamo nulla di simile. Mille mila partiti, movimenti e rappresentanze, tutti che si muovono da soli, in una sterile guerra tra poveri, e non riescono ad avere una visione d’insieme. È indubbiamente anche questa una delle maggiori critiche presenti nel libro, oltre a quelle rivolte al sistema.
Per concludere “Il Sole dell’Avvenire” è uno dei libri più belli, toccanti ed istruttivi scritti da Valerio Evangelisti. Se siete suoi fan dovete leggerlo. Se non avete mai letto nulla di suo, cominciate pure da questo e vi innamorerete di questi personaggi e di questa storia. I due romanzi “Il Collare di Fuoco” e “Il Collare Spezzato” sappiamo che sono stati adottati, in Messico, come libri di testo per raccontare la storia del loro paese. Sarebbe bellissimo se simile destino avesse anche la trilogia de “Il Sole dell’Avvenire” in Italia. Forse, per una volta, gli studenti italiani si appassionerebbero alle letture scolastiche, soprattutto unirebbero l’utile al dilettevole imparando qualcosa d’importante sulla nostra storia e, perché no, imparerebbero anche un po’ di più a pensare con la loro testa.
martedì 18 marzo 2014
True Detective
HBO, si sa, è sinonimo di qualità. I titoli sfornati negli ultimi anni sono uno meglio dell’altro e hanno contribuito a spedire l’emittente americana direttamente nell’Olimpo delle reti preferite dai fan di serie-tv. I motivi son tanti e al contempo semplici: storie interessanti, scritte bene, recitate anche meglio, scenografie, costumi e regia paragonabili ai film di Hollywood, nessuna remora a mostrare nudi, sesso e violenza là dove ce n’è bisogno (e a volte anche dove non ce n’è).
True Detective - Stagione 1
Uno degli ultimi titoli nati è proprio True Detective. Una serie-tv antologica, nel senso che ogni stagione sarà dedicata a un caso diverso, con nuovi attori, nuovi personaggi, nuove ambientazioni. Non abbiamo problemi, quindi, a parlare di questo titolo senza aspettare le prossime stagioni, se ci saranno, perché tutto nasce e finisce qui.
La serie è prodotta, tra gli altri, anche da Matthew McConaughey e Woody Harrelson che interpretano, rispettivamente, Rust “Rusty” Cohle e Martin “Marty” Hart, la coppia di detective protagonista di questa stagione. Chiaro, dunque, l’interesse da parte dei due attori nei confronti del plot, tanto da esporsi in prima persona mettendoci i soldi.
Fin dalla prima puntata è subito chiaro perché McConaughey e Harrelson credessero tanto in questo titolo. La serie funziona alla grande: lo script riesce a incuriosire e a calamitare l’attenzione del telespettatore.
La storia si dipana su piani temporali differenti eppure paralleli. Diversi sono gli anni importanti in cui succedono le cose. Uno è il 2013, Cohle e Hart non sono più in polizia, sono stati convocati per porgli alcune domande su un loro vecchio caso risalente al 1995. L’ambientazione è la Lousiana, quindi non sorprende che ufficialmente i rapporti di quel caso siano andati distrutti a causa dell’uragano Katrina, perciò due nuovi detective vogliono porgli domande su ciò che c’era scritto in quei fascicoli.
Comincia, dunque, il racconto di quei fatti, e l’azione si sposta nel 1995 per mostrarci in diretta ciò che avviene. Un omicidio, apparentemente rituale, quale mai si era visto da quelle parti. Gli indizi sono tanti, ma sembrano non portare da nessuna parte.
Cohle e Hart, ai tempi, erano colleghi, anche se il loro rapporto appare un po’ singolare e, a tratti, burrascoso. Cohle è strano, chiuso in sé stesso, fa discorsi che Hart fatica a capire sul significato dell’esistenza o, meglio, il suo non significato. Hart, d’altra parte, è un personaggio più terra-terra, legato alla sua famiglia, innamorato di sua moglie e delle sue figlie, ma incapace di tener allacciati i pantaloni appena una ragazza si mostra interessata. Non potrebbe esserci una coppia più diversa e, forse proprio per questo, sullo schermo funziona. Naturalmente il merito è soprattutto di McConaughey e Harrelson, perfettamente calati nella parte. Se ce lo si poteva abbastanza aspettare per quanto riguarda Harrelson, dato che Hart è un personaggio nelle sue corde, tutto sommato piuttosto simile ad altri che ha già interpretato in passato, McConaughey è strabiliante e viene quasi spontaneo chiedersi dove abbia, di punto in bianco, imparato a recitare così, dopo che per anni è stato un attore decisamente monodimensionale (dopo aver visto la serie, però, non meraviglia assolutamente che abbia vinto l'Oscar come Miglior Attore Protagonista).
La coppia, in ogni caso, non funziona solo per il pubblico, ma funziona anche nel lavorare ai casi, con due atteggiamenti e modi di procedere diametralmente opposti, che fan sì che ciascuno osservi ogni cosa da punti di vista nuovi e per lui inusuali, portando poi a dei risultati concreti.
Ben presto, nonostante le pressioni politiche e religiose che premono sulle loro spalle, Cohle e Hart cominciano a trovare sempre più indizi riguardo a quella che sembrerebbe essere una sorta di culto o di setta legata al Re in Giallo. Alcuni simboli si ripetono, come la spirale, mentre alcuni nomi si fanno sempre più frequenti in bocca agli interrogati, come Carcosa.
A questo punto lo spettatore che sia anche lettore appassionato, non può non notare tutte le citazioni trasversali all’opera più famosa di Robert W. Chambers, l’antologia di racconti intitolata proprio “Il Re in Giallo”. Un libro che ispirò anche il più celebre Lovecraft nella creazione di molti dei suoi miti e, soprattutto, del più famoso pseudo-biblia di tutti i tempi: il Necronomicon. Perché anche nell’opera di Chambers, in realtà, Il Re in Giallo è il titolo di una rappresentazione teatrale, di un libello, fantastico, capace di portare alla follia chi ne entrasse in possesso e lo leggesse. Chambers ne riporta, in alcuni momenti, dei frammenti, stralci poetici, puntualmente citati e riportati alla lettere nella serie-tv.
Il mistero si infittisce e lo spettatore vede salire sempre più le proprie aspettative.
Il caso sembra giungere a una svolta con la morte di due sospetti. Forse è tutto finito, i colpevoli sono stati uccisi, giustizia è stata fatta. Eppure qualcosa non torna. Forse non son stati loro o, forse, non son stati solo loro. Forse, anzi, quasi certamente, c’è dietro qualcosa d’altro. Qualcun altro. Gente abbastanza potente e abbastanza in alto da aver messo a tacere le sparizioni di decine di donne e bambini nel corso degli anni per continuare le proprie pratiche indisturbati. Qualcuno che ha creato un vero e proprio culto attorno al Re in Giallo.
Attraverso i piani temporali, che a un certo punto si arricchiscono anche del 2002, l’indagine prosegue tra ostacoli, strade a fondo chiuso e nuovi indizi.
Nella seconda metà della stagione, lo spettatore più avvezzo alle serie-tv non può non notare qualche somiglianza con un altro titolo di qualche anno fa, di origine inglese. Mi riferisco alla miniserie in tre film “Red Riding” (di cui avevamo parlato qui).
I punti di contatto sembrano evidenti.
Una regione pesantemente intaccata dalla miseria, dalla povertà e dall’ignoranza. Un gruppo di persone potenti, in grado di fare tutto ciò che vogliono. Bambini scomparsi nell’arco di decine di anni, le cui sparizioni vengono passate sotto silenzio dalle autorità o per le quali vengono trovati capri espiatori di comodo.
Fin qui il plot sembrerebbe essere simile, ma non necessariamente debitore l’uno verso l’altro. Ciò che cambia tutto è l’inserimento di un personaggio: un travestito con informazioni importanti per Cohle, che gli rivela di esser stato presente a certi riti (molto simile al character interpretato da Robert Sheehan in “Red Riding”) e un video che viene ritrovato. In esso possiamo assistere proprio a un ritrovo del culto del Re in Giallo, a cui partecipano, con ogni probabilità, le importanti personalità di cui si diceva. Nessun modo per identificarli, però, perché indossano tutti una maschera, la maschera di un animale. Diverso per ognuno. Proprio come in “Red Riding” i membri del gruppo erano soliti chiamarsi tra loro con nomi di animali.
Il senso di dejà-vù è forte.
Eppure, fino a questo punto, la serie è scritta così bene che si è ben disposti a passarci sopra per andare avanti, per vedere dove si vuole andare a parare.
Purtroppo, però, il finale non appare all’altezza del resto della stagione e delle aspettative.
Nell’ultimo episodio vi è una svolta nelle indagini con un escamotage un po’ tirato per i capelli, ma che, tutto sommato, ci può anche stare. I nostri detective arrivano a colui che sembrerebbe poter essere l’esecutore materiale di molti degli omicidi, quantomeno una sorta di boia o tuttofare che sceglieva e rapiva i bambini per la setta. Nonché il custode di un luogo oscuro, sperduto tra le paludi, che arriviamo a identificare con la Carcosa di cui tanti testimoni avevano parlato.
Il confronto è brutale e i nostri protagonisti rischiano di lasciarci la pelle. Ma il cattivo viene ucciso e loro si salvano.
Fine.
Siamo persuasi che questa non fosse, come dicono in molti, una serie basata tanto sul plot, quanto sui personaggi. Ma un finale simile risulta alquanto indigesto. I protagonisti ritornano a mettere insieme la coppia (scoppiata nel 2002) dopo undici anni solo perché sono convinti che la setta che c’è dietro a quelle sparizioni e a quegli omicidi vada fermata. Una setta che, ormai ne sono certi, coinvolge persone altolocate. Tanto che prima di recarsi all’appuntamento col destino, fanno un gran numero di copie di tutte le prove che hanno, da spedire a giornali, polizia, FBI, tv locali e nazionali.
Eppure, dopo aver eliminato il mero esecutore e aver liquidato la faccenda della setta con una frettolosa frase pronunciata al tg “le autorità hanno messo a tacere le voci sul coinvolgimento di persone importanti”, per loro sembra che la vicenda sia finita. Sinceramente ci sembra un po’ poco. Non pretendevamo che Cohle e Hart riuscissero a scoperchiare tutto il marcio: il finale con i cattivi che rimangono impuniti ci può anche stare, nel momento in cui si vuole fare una serie che punti un po’ più al realismo. Quello che non torna è l’atteggiamento dei personaggi, che sembrano aver subito un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto da dimenticare completamente tutto ciò per cui stavano combattendo, lasciandoselo dietro le spalle quasi non fosse più importante.
Un simile twist avrebbe avuto più senso se colui che avevano fatto fuori si fosse rivelato, in qualche modo, una figura di spicco della setta. Una sorta di santone, magari una specie di oracolo a cui tante persone potenti si rivolgevano, nonostante fosse, per usare le loro stesse parole, “un bifolco”. Difficile, infatti, credere che potesse avere un ascendente di tipo intellettuale o carismatico, da qui l’idea che, invece, magari l’essere portato per delle crisi epilettiche, potesse essere da loro interpretato come qualcosa di metafisico.
Purtroppo non vi sono tracce di alcuna sottotrama di questo tipo.
E se pure si tratta di una serie che punta l’attenzione sui personaggi, sulla loro evoluzione, sul rapporto che vi è tra loro, in cui la trama generale, l’indagine, passa in secondo piano, al punto da poter perfino esser messa da parte a un certo punto, il finale risulta ugualmente deludente. È deludente proprio perché la trama generale rimane aperta, il caso non è davvero chiuso, tutt’altro, quindi i personaggi non possono comportarsi come se lo fosse e, finalmente, andare avanti con la loro vita. L’ossessione di Cohle per questi omicidi è ancora lì, perché gli assassini sono ancora là fuori, eppure gli sceneggiatori, nelle ultime immagini, ci mostrano un Rusty finalmente in pace con sé stesso e con i suoi demoni interiori. Un uomo che, convinto di aver fatto giustizia, finalmente riesce a guardare avanti, a ciò che resta della sua vita, invece che continuamente indietro.
Il finale, dunque, risulta essere alquanto incoerente con il resto della serie e perfino nei confronti dei personaggi, fino a quel momento gestiti benissimo. L’impressione è che sia un po’ scappata di mano agli sceneggiatori la gestione dei tempi, di cosa mostrare poco per volta e si sia dovuti giungere frettolosamente a una conclusione con l’ultima puntata. Forse, con un altro paio di episodi ancora a disposizione, più tempo e spazio per gestire tutte le sottotrame, ora staremmo parlando di un capolavoro a tutto tondo.
Così, invece, rimane una serie di qualità superiore, ottimamente gestita fino all’ultima puntata, ma con un finale decisamente non all’altezza.
giovedì 6 marzo 2014
Grant Morrison & Dave McKean - "Batman: Arkham Asylum - Absolute Edition"
Titolo: “Batman: Arkham Asylum – Absolute Edition”
Autore: Grant Morrison e Dave McKean
Edizione: RW Lion
Anno: 2012
Grant Morrison è considerato uno degli autori di fumetti più brillanti degli ultimi anni, salito alla ribalta del mondo dei comics grazie alle sue pregevolissime run di alcuni dei maggiori personaggi della DC, nonché la sua interpretazione di Animal Man e diverse testate originali come “The Invisibles”.
Prima, però, che diventasse una sorta di superstar del fumetto supereroistico, era un autore inglese quasi anonimo. La svolta nella sua carriera è arrivata proprio grazie ad “Arkham Asylum”, una storia che presentava il personaggio di Batman in maniera del tutto innovativa e che, a distanza di anni, riesce a conservare tutte le proprie qualità.
Ai tempi, ovviamente, Morrison non sapeva ancora che questa storia gli avrebbe aperto le porte del gotha del fumetto americano. Per lui era un trampolino di lancio che andava sfruttato al mille per cento per ottenere quanta più spinta possibile per arrivare in alto. Così fece, andando a confezionare una vicenda e una sceneggiatura così complessa e infarcita di simbolismi, metafore, rimandi incrociati, da essere considerata un capolavoro ancora oggi.
Non meraviglia, quindi, che “Arkham Asylum” abbia avuto un successo esagerato e che Morrison sia stato immediatamente portato in palmo di mano attraverso l’Atlantico. Semmai meraviglia che un’opera così complessa, così stratificata e piena di livelli di lettura diversi, abbia fatto così tanta presa anche sulla massa, sul pubblico mainstream. Certamente i disegni di McKean (per quanto il termine “disegni” sia estremamente limitante nel caso dell’artista inglese) hanno aiutato, ammantando tutta l’opera di ulteriore pregio, anche visivo, rendendola in grado di spiccare in maniera nettissima tra la massa.
Eppure rimane il sospetto che i lettori americani che ebbero il privilegio di leggere per primi queste pagine, non abbiano percepito e compreso appieno la profondità di quest’opera. Il motivo è semplice: quei primi albi sequenziali presentavano solo ed esclusivamente i disegni, le tavole, i dialoghi della storia, senza alcun aiuto esterno, nessun redazionale che spiegasse, che svelasse tutti i meccanismi e i segreti celati in ogni pagina.
Più che il grande formato, capace di rendere al meglio l’opera di McKean, ciò che rende preziosa un’edizione come questa è ciò che viene dopo il fumetto vero e proprio. La sceneggiatura originale di Morrison, con tutti i suoi appunti, i suoi commenti, i suoi suggerimenti. Con tutti gli incisi in cui spiega esattamente cosa vuole comunicare e perché, cosa significa ogni singolo oggetto sparso tra le pagine, quale il suo valore metafisico, quale il rimando alle carte dei tarocchi o a qualche teoria filosofica o psicologica.
E se già i testi originali di Morrison non bastassero, ecco dei commenti posticci, in cui l’autore stesso disamina e illustra più approfonditamente ciò che lo ha portato a prendere certe decisioni e a inserire certe scene. Insomma, un vero e proprio tuffo in “Arkham Asylum”: fino in fondo, fino a toccarne la vera essenza illuminandone ogni più angusto e recondito particolare, per poterne riemergere meravigliati e ammirati.
Se volete leggere un’opera del tutto fuori dal coro sull’uomo pipistrello, questo è pane per i vostri denti. E se volete leggere “Arkham Asylum”, la cosa migliore è proprio farlo avendo tra le mani un’edizione come questa, che possa permettere di apprezzare il fumetto al meglio e in tutto e per tutto.
Autore: Grant Morrison e Dave McKean
Edizione: RW Lion
Anno: 2012
Grant Morrison è considerato uno degli autori di fumetti più brillanti degli ultimi anni, salito alla ribalta del mondo dei comics grazie alle sue pregevolissime run di alcuni dei maggiori personaggi della DC, nonché la sua interpretazione di Animal Man e diverse testate originali come “The Invisibles”.
Prima, però, che diventasse una sorta di superstar del fumetto supereroistico, era un autore inglese quasi anonimo. La svolta nella sua carriera è arrivata proprio grazie ad “Arkham Asylum”, una storia che presentava il personaggio di Batman in maniera del tutto innovativa e che, a distanza di anni, riesce a conservare tutte le proprie qualità.
Ai tempi, ovviamente, Morrison non sapeva ancora che questa storia gli avrebbe aperto le porte del gotha del fumetto americano. Per lui era un trampolino di lancio che andava sfruttato al mille per cento per ottenere quanta più spinta possibile per arrivare in alto. Così fece, andando a confezionare una vicenda e una sceneggiatura così complessa e infarcita di simbolismi, metafore, rimandi incrociati, da essere considerata un capolavoro ancora oggi.
Non meraviglia, quindi, che “Arkham Asylum” abbia avuto un successo esagerato e che Morrison sia stato immediatamente portato in palmo di mano attraverso l’Atlantico. Semmai meraviglia che un’opera così complessa, così stratificata e piena di livelli di lettura diversi, abbia fatto così tanta presa anche sulla massa, sul pubblico mainstream. Certamente i disegni di McKean (per quanto il termine “disegni” sia estremamente limitante nel caso dell’artista inglese) hanno aiutato, ammantando tutta l’opera di ulteriore pregio, anche visivo, rendendola in grado di spiccare in maniera nettissima tra la massa.
Eppure rimane il sospetto che i lettori americani che ebbero il privilegio di leggere per primi queste pagine, non abbiano percepito e compreso appieno la profondità di quest’opera. Il motivo è semplice: quei primi albi sequenziali presentavano solo ed esclusivamente i disegni, le tavole, i dialoghi della storia, senza alcun aiuto esterno, nessun redazionale che spiegasse, che svelasse tutti i meccanismi e i segreti celati in ogni pagina.
Più che il grande formato, capace di rendere al meglio l’opera di McKean, ciò che rende preziosa un’edizione come questa è ciò che viene dopo il fumetto vero e proprio. La sceneggiatura originale di Morrison, con tutti i suoi appunti, i suoi commenti, i suoi suggerimenti. Con tutti gli incisi in cui spiega esattamente cosa vuole comunicare e perché, cosa significa ogni singolo oggetto sparso tra le pagine, quale il suo valore metafisico, quale il rimando alle carte dei tarocchi o a qualche teoria filosofica o psicologica.
E se già i testi originali di Morrison non bastassero, ecco dei commenti posticci, in cui l’autore stesso disamina e illustra più approfonditamente ciò che lo ha portato a prendere certe decisioni e a inserire certe scene. Insomma, un vero e proprio tuffo in “Arkham Asylum”: fino in fondo, fino a toccarne la vera essenza illuminandone ogni più angusto e recondito particolare, per poterne riemergere meravigliati e ammirati.
Se volete leggere un’opera del tutto fuori dal coro sull’uomo pipistrello, questo è pane per i vostri denti. E se volete leggere “Arkham Asylum”, la cosa migliore è proprio farlo avendo tra le mani un’edizione come questa, che possa permettere di apprezzare il fumetto al meglio e in tutto e per tutto.
Iscriviti a:
Post (Atom)