Avvertenze

- - - - - - - LE RECENSIONI POSSONO CONTENERE SPOILER!!! - - - - - - -

martedì 6 novembre 2012

Dean R. Koontz - "Phantoms!"

Autore: Dean R. Koontz
Titolo: "Phantoms!"
Edizione: Mondadori - Urania Speciale n° 1006
Anno: 1985

Come sempre Koontz si conferma scrittore dal ritmo incalzante, capace di avvincere il lettore con una tensione narrativa che ha pochi rivali. Per una volta, inoltre, il finale non risulta essere una netta caduta di stile rispetto al resto dell'intreccio. 
Dopo aver letto un libro come questo, però, sorge spontanea una punta di amarezza al constatare su cosa si sia concentrata, ormai, la narrativa di Koontz. Visti i risultati di cui si è potuto fregiare nel corso dei primi anni, romanzi come questo "Phantoms", ma anche "Mostri", "Mezzanotte" o "Lampi", non si può che rimpiangere la produzione più horror di questo autore. Non che i suoi libri successivi siano mediocri, quando uno sa scrivere come Koontz, diventa facile farsi leggere qualsiasi cosa si pubblichi, però dispiace constatare come si sia perso uno dei migliori scrittori puramente horror degli ultimi anni. Soprattutto perchè da nome di punta del genere, si è tramutato in un uno fra i tanti che scrivono thriller. Magari lui ci avrà guadagnato in numero di lettori (ma non credo di fan) e, quindi, in soldi in banca, l'horror ha perso un autore che aveva qualcosa di diverso, di originale e di qualità da dire.

mercoledì 24 ottobre 2012

Preston & Child - "La Danza della Morte"

Autore: Douglas Preston, Lincoln Child
Titolo: "La Danza della Morte"
Edizione: Rizzoli - BUR
Anno: 2008

Preston e Child si riconfermano, per l'ennesima volta, ottimo scrittori d'intrattenimento. Questo "La Danza della Morte" (secondo capitolo di una sottotrama conosciuta dai fan come trilogia di Diogenes) dimostra una volta in più, se mai ce ne fosse bisogno, che i due romanzieri americani volano una spanna sopra a tanti autori di best-seller più o meno noti. 
La trama, come sempre, è intricata e piena di svolte e colpi di scena. I personaggi, soprattutto quelli che i lettori hanno già imparato a conoscere ed apprezzare nei precedenti romanzi scritti dalla coppia, sono come sempre vividi e tridimensionali. Seppur, in alcuni casi, magari un po' stereotipati, risultano immediatamente simpatici e ci si trova, volenti o nolenti, a parteggiare per loro. 
In questo nuovo capitolo delle avventure dell'agente speciale Pendergast, inoltre, facciamo finalmente la conoscenza, faccia a faccia, di suo Diogenes. Figura ammantata di mistero, sorta di entità malefica che aleggiava di sottofondo già da un paio di volumi, il fratello di Aloysius fa qui la sua entrata in scena. E si tratta di un'apparizione trionfale. 
Buona parte del libro è basato su una sorta di scontro di menti, il bene contro il male, in un elaborato intreccio di mosse e contromosse tra due cervelli geniali. 
Naturalmente la prima regola è accordare una buona dose di sospensione dell'incredulità, dopo di ché, però, ci si può buttare a capofitto nella lettura. Preston e Child non vinceranno mai il Nobel per la letteratura, né passeranno alla storia come gli scrittori più venduti o più letti della storia. I loro libri non hanno velleità d'artista, ma solo quello di esser l'opera di onesti mestieranti. Ciononostante, i libri dell'agente speciale Pendergast (e questo in particolare), sono in grado di riservare qualche ora di una più che piacevole compagnia, unita a dell'intrattenimento di qualità. E scusate se è poco.

mercoledì 17 ottobre 2012

Valerio Evangelisti - "Rex Tremendae Maiestatis"

Autore: Valerio Evangelisti
Titolo: "Rex Tremendae Maiestatis"
Edizione: Mondadori - Strade Blu Dark
Anno: 2010

Decimo capitolo del ciclo di Nicolas Eymerich, ma anche ultimo capitolo della saga dell'inquisitore. 
Ammetto di essere molto legato a questi libri e a questi personaggi, per cui è difficile riuscire a rimanere del tutto oggettivi scrivendo queste parole. D'altra parte è altrettanto difficile rimanere indifferenti di fronte a questa lettura e non pensare a questo ultimo romanzo come al capolavoro dello scrittore bolognese, capace di essere degna conclusione e, al contempo, nuovo inizio del ciclo. 
Ma andiamo con ordine. 
Inutile sforzarsi di dare una infarinatura della trama, chi ha mai preso in mano uno dei romanzi del ciclo di Eymerich, sa che le vicende non sono quasi mai lineari, ma il frutto di avvenimenti che accadono in tempi e luoghi diversi, distanti migliaia di chilometri o centinaia (se non migliaia) di anni. Eppure questi fatti hanno una eco capace di influenzare, istantaneamente, gli altri, spesso con un ordine che potrebbe apparire a-cronologico. Cercare, quindi, di esplicare in poche parole la storia alla base del romanzo rischierebbe di risultare come una sequenza di spoiler del tutto inutili. 
Meglio, piuttosto, concentrarsi sugli argomenti su cui si basa il libro e parlare di quelli. Già, perchè "Rex Tremendae Maiestatis" non è solo una delle indagini più interessanti e complicate dell'inquisitore, ma anche una sorta di libretto delle istruzioni per meglio comprendere tutti gli altri volumi della saga. Proprio in questo sta la grandezza di questo romanzo, nel fornire una sorta di nuova chiave di lettura per tutti i precedenti capitoli del ciclo. Una conclusione, quindi, ma anche un nuovo inizio, una nuova luce attraverso la quale leggere e rileggere tutti i libri (magari nel corretto ordine cronologico degli avvenimenti e non quello in cui son stati scritti), in un vero e proprio serpente che si morde la coda: l'ouroboros (non a caso più volte citato nel romanzo), simbolo di ciclico ed eterno alternarsi di inizio e fine, alfa e omega. 
Le qualità, naturalmente, non si esauriscono qui, ma meglio lasciare al lettore il piacere e l'emozione di scoprirle da solo. 
Al termine della lettura, però, rimane pur sempre un piccolo rimpianto, quello di aver detto addio a un personaggio unico che, nel bene e nel male, avevamo imparato ad apprezzare e, perchè no, ad amare. Inutile cercare di nascondere il magone, come quando si saluta un vecchio amico, sapendo che non tornerà. Si può solo cercare di mitigarlo riprendendo in mano "Nicolas Eymerich, Inquisitore".

venerdì 5 ottobre 2012

George R. R. Martin - "Tempesta di Spade" Parte Prima

Autore: George R. R. Martin
Titolo: "Tempesta di Spade" Parte Prima
Edizione: Mondadori - Urania Grandi Saghe
Anno: 2009

Come sempre Martin non si smentisce e confeziona un libro (o, almeno, la prima metà) pieno di avvenimenti, capace di avvincere il lettore con il carisma dei suoi personaggi e la drammaticità degli eventi. 
I nuovi POV (abbreviazione di Point Of View, cioè "punti di vista"), inoltre, ci aprono nuove porte e nuove percezioni. Ed è qui che sta, anche, la bravura di Martin, perchè quando guardiamo il mondo con gli occhi di un personaggio, diventa difficile continuare a considerarlo uno stronzo, come magari facevamo prima. Questo stratagemma, inoltre, ci conferma una volta di più come la storia dei Sette Regni non sia una e una sola. Al contrario la storia cambia e differisce a seconda di chi è il narratore. 
Diventa, così, fin troppo evidente che vi è ancora molta carne che deve essere messa al fuoco prima che la saga possa vedere la sua conclusione. Cosa di cui i fan son sicuramente felici, purchè il Buon Vecchio Zio Martin dia una mossa alla sua penna e la porti a conclusione con un po' di celerità in più rispetto a quella mostrata per terminare il quinto libro (ben 6 anni!).

mercoledì 26 settembre 2012

Battlestar Galactica


Quando una serie diviene, o può essere considerata, un capolavoro?

Soprattutto… è sempre possibile riconoscere immediatamente una serie capolavoro, già mentre viene messa in onda? O non bisogna, piuttosto, aspettare qualche anno, per vedere come risponderà alla prova del tempo? Se ha lasciato il segno e continua ad avere qualcosa da dire, nonostante il passare degli anni?

Facile affermare che serie come Star Trek TOS o la prima stagione di Spazio 1999 son capolavori, più difficile è dirlo se le serie son molto più vicine a noi.

Un problema, però, che non sembra porsi con Battlestar Galactica.

Tutto nasce con una serie TV dalle alterne fortune, creata inizialmente nel 1978 (per quanto fondata, pare, su una idea degli anni ’60) dalla ABC. Questa prima serie non ebbe successo e, anche a causa degli altissimi costi di produzione, venne presto interrotta. Alla prima serie fece seguito, a breve distanza, un rilancio con nuova trama e nuovi personaggi che naufragò in brevissimo tempo. Benché la prima serie fosse stata chiusa a causa dei bassi ascolti, infatti, sia il pubblico mainstream che i fan della prima ora presero malissimo il tentativo di reboot e boicottarono (probabilmente anche a causa del pessimo livello del prodotto, frutto di un budget bassissimo che costrinse a realizzare alcuni episodi riciclando spezzoni di altri film e telefilm) in massa la seconda serie.

Battlestar Galactica appariva, quindi, un titolo destinato a finire nel dimenticatoio. Invece, vuoi per gli effetti speciali della prima serie (assolutamente all’avanguardia per l’epoca), vuoi per il carisma di alcuni personaggi, vuoi perché il nome si è instillato nelle menti degli appassionati di fantascienza come qualcosa di mitico e mitologico, nel corso degli anni diversi son stati i tentativi di riportare sugli schermi la serie.

I nomi che si agitavano dietro le quinte son stati molti, da Glen A. Larson, creatore iniziale della serie, a veri e propri big come Brian Synger (regista de I Soliti Sospetti e X-Men 1 e 2, ma anche produttore di Doctor House). Nessuno di essi, però, ha avuto fortuna con le rispettive case di produzione.

Tocca, quindi, a Ronald D. Moore (già noto agli appassionati per svariati episodi di Star Trek TNG e Star Trek DS9), nel 2003, riuscire là dove in tanti avevano fallito. E si re-inizia proprio come era iniziata la prima, storica, serie, cioè con un telefilm con grandi effetti speciali.

La storia, inoltre, non è una riscrittura della serie originale, bensì una sorta di sua evoluzione. 50 anni dopo la fine della guerra tra umani e Cyloni (robot che si eran ribellati agli uomini loro creatori) narrata nella prima serie, la miccia si riaccende. Una nuova generazione di Cyloni lancia un attacco nucleare globale e simultaneo contro tutte le colonie di esseri umani. Il risultato è agghiacciante: oltre il 90% della razza umana viene cancellato in poche ore, si salvano solo poche migliaia di persone che fuggono a bordo di alcune astronavi spaziali.

In meno di 3 ore, la durata complessiva della miniserie che anticipa la nuova serie, Ronald D. Moore ci presenta una situazione assolutamente critica e drammatica come se ne son viste solo in pochissime altre occasioni e pone il primo mattone di una serie spettacolare destinata a divenire un capolavoro.

Già, perché ciò che avviene in questo inizio letteralmente “col botto” è, appunto, solo l’inizio. Non staremo a enumerare tutti gli avvenimenti e gli sconvolgimenti a cui andrà incontro la serie, anche per non togliere il piacere agli spettatori di scoprire da soli cosa gli riserva ogni nuovo episodio. Diremo solo che non si tratta di uno di quei titoli a cui piace sedersi sugli allori e porre in essere una certa situazione nelle prime puntate, per poi finire a riciclare all’infinito determinati schemi narrativi. Al contrario tutta la vicenda è in continuo divenire e, soprattutto, ogni svolta serve a presentare nuovi, interessanti, dilemmi, spesso etici e morali, come nella tradizione della migliore fantascienza letteraria.

Se è vero, come è vero, che una branca della science-fiction è definita “umanistica” per il suo essere allegoria di questioni socio-politiche attuali poste in ambientazioni futuristiche, come, ad esempio, quella di Philip K. Dick, Theodore Sturgeon, Clifford Simak, Robert Heinlein, in parte anche Isaac Asimov e molti altri, allora Battlestar Galactica può essere inserita nello stesso genere.

Ciò che colpisce, però, sopra a tutto, è il coraggio di alcune scelte di sceneggiatura, anche alla luce del momento storico in cui vengono fatte. Non molti avrebbero il fegato, perfino oggi, di scrivere singoli episodi dal punto di vista di terroristi kamikaze, disposti a tutto pur di porre fine al regime degli invasori. Ronald D. Moore dedica all’argomento quasi metà di una stagione e lo fa in tempi ben più vicini all’11 Settembre. Ma molti altri son gli esempi eclatanti di una profondità con pochi epigoni, ad esempio i dilemmi morali se sia lecito vietare gli aborti (quindi limitare la libertà di alcuni individui) quando la razza umana è così vicina all’estinzione o, ancora, se è giusto impedire gli scioperi e ridurre, in pratica, in schiavitù centinaia di persone, perché son le uniche capaci di produrre alcune materie prime che servono a tutta la comunità.

Temi forti, profondi, che in Battlestar Galactica non sono trattati con sufficienza, al contrario con sceneggiature interessanti e mai banali, capaci di regalare più di un brivido agli spettatori.

Tutto è oro quel che luccica, quindi?

In realtà no. Rimane, infatti, in sospeso la questione del finale che ha fatto storcere il naso a molti fan.

Anche in questo caso, però, è giusto e doveroso fare dei distinguo. Stabilire, cioè, una differenza tra quella che è la fine della vicenda narrata fin dal primo episodio, una fine che non avrebbe potuto essere differente (cosa che si intuisce fin da metà della terza stagione), e alcuni punti lasciati “in sospeso”.

Come molte serie ad essa contemporanee (come, ad esempio, LOST), anche Battlestar Galactica risente di alcune influenze e derive che potremmo definire “mistiche”. Non ci è dato sapere i motivi per cui una serie puramente fantascientifica ed estremamente razionale abbia ceduto alla tentazione di inserire degli angeli nella trama. Così come non ci è dato sapere come mai Ronald D. Moore, che fino all’ultimo è sempre riuscito a incastrare i tasselli del puzzle in maniera quasi maniacale, abbia improvvisamente mandato a monte una parte dell’affresco della serie per introdurvi delle variabili che non si prende neanche la briga di spiegare. Possiamo solo sospettare che ci siano state delle influenze da parte della produzione per l’aggiunta di questi elementi chiaramente poco coerenti. Fatto sta che molti dei fan hanno, giustamente, storto il naso.

Tuttavia, per quanto questi fattori abbiano ridotto in maniera inequivocabile il valore del finale, di certo non intaccano, invece, i meriti della serie nel suo complesso. Battlestar Galactica rimane (e sicuramente rimarrà a lungo) una pietra miliare della fantascienza televisiva, capace di imporre nuovi standard sia a livello di produzione (effetti speciali, regia, recitazione, costumi, scenografie) che, soprattutto, a livello di sceneggiature.

Una serie come questa non esce tutti i giorni: correte a recuperarla!

domenica 26 agosto 2012

Haruki Murakami - "La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie"

Autore: Haruki Murakami
Titolo: "La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie"
Edizione: Einaudi - Tascabili
Anno: 2008

Mah. Forse mi aspettavo di più. O forse, semplicemente, mi aspettavo qualcosa di diverso. 
Fatto sta che questo mio primo incontro con Haruki Murakami non è stato del tutto soddisfacente, almeno per il sottoscritto. 
Ma quali sono i problemi del libro? Certamente non il fatto di esser scritto male, infatti lo stile è sempre molto elegante e scorrevole. Anche nei punti in cui la cultura orientale (fatta di usi e costumi, modi di dire, etc.) diventa fonte di piccole possibili incomprensioni per il lettore occidentale, la lettura prosegue senza intoppi. 
La storia, inoltre, è interessante e la dicotomia tra "interno" ed "esterno" del protagonista (nessuno spoiler, fa di peggio la quarta di copertina, da questo punto di vista), per quanto intuibile già dai primi capitoli, lascia presagire sviluppi imprevisti. 
Il problema, però, salta fuori proprio a questo punto. 
Non mi riferisco tanto ad alcune digressioni filosofico-esistenzialiste che ad alcuni potranno piacere moltissimo, mentre ad altri potrebbero risultare piuttosto ripetitive e noiose (appartengo a questo secondo gruppo). Il fatto è che la trama, la svolta definitiva, la rivelazione, tutto quanto si esaurisce già nella prima metà del romanzo. Come si diceva, poi, il colpo di scena è anche ampiamente previsto, ma il lettore prosegue perchè convinto che lo aspetti ben altro, che si arrivi a un nuovo livello. 
Invece tutto questo non accade. Una volta sganciata la bomba, la parte rimanente del libro è un lento trascinarsi verso l'inesorabile fine. Perfino l'ultimo, definitivo, colpo di scena che pone fine a tutto, più che una sorpresa appare quasi come un dovere. L'unico sistema per chiudere il libro, terminarlo lì su due piedi, perchè succedesse qualcosa d'altro non saprebbe come cavarsela. 
Per certi versi è un libro molto "straniero", perchè la cultura che anima e che fa muovere i personaggi è ben diversa dalla nostra. Ma questo giustifica solo fino a un certo punto certe scelte di trama e di svolgimento della storia. 
Forse un giapponese potrebbe trovare più significati simbolici e metafisici di un occidentale in quel finale, ma il sospetto è che lo troverebbe ugualmente insoddisfacente.

mercoledì 1 agosto 2012

Life On Mars UK vs. Life On Mars USA


Gli americani, lo sappiamo, nutrono una certa idiosincrasia nei confronti di tutti quei prodotti, per il grande e il piccolo schermo, realizzati al di fuori dei loro patrii confini. L’abbiamo visto con l’ondata degli horror nipponici, uno dopo l’altro ri-fatti dagli americani, anche se spesso con l’aiuto dei registi originali (The Ring, Ju-On – The Grudge, Dark Water, etc.), l’abbiamo visto anche con gli horror spagnoli (Rec divenuto Quarantine) e in molte altre occasioni. Ovviamente, alla lista non potevano mancare i telefilm.
Il fatto è che non si può neanche dire che gli americani abbiano pessimo gusto. I titoli selezionati, infatti, sono spesso delle vere e proprie chicche, dei gioiellini per l’idea di partenza, le trame degli episodi, la recitazione e/o la realizzazione complessiva.

Gli USA non hanno una cultura del doppiaggio come ce l’abbiamo noi in Italia. Da loro i film non vengono tradotti e ridoppiati ma, generalmente, sottotitolati. Possibile, però, che costi meno rifare un film da zero, con attori americani, che sforzarsi di provare, per una volta, a doppiarne uno? Ad ogni modo neanche la scusa del doppiaggio funziona e sta in piedi, quando a venir rifatte negli States sono serie anglosassoni e quindi già “parlate” in inglese (e, diciamocelo, un inglese spesso migliore di quello che si sente nelle serie americane).

Quello che lascia davvero perplessi, in realtà, è perché prendere un prodotto con delle sue caratteristiche e qualità implicite; qualità che devono essere state riconosciute e apprezzate, se hanno condotto a quella scelta; per poi stravolgerlo completamente.

Questo, in sintesi è quanto capitato a Life On Mars.
Sì, perché, chiariamolo subito: tutte le scuse sul finale della serie americana, sull’ultimo episodio abborracciato, non in linea con quello inglese, tirato via, incoerente, etc. sono, per l’appunto, scuse. Che oltretutto non stanno neanche in piedi.

Ma andiamo a vedere, in dettaglio, cosa rende splendida la versione UK e pessima quella USA.

Cominciamo con ciò che salta immediatamente agli occhi: gli attori.
La versione UK può contare su un Sam Tyler interpretato da John Simm. Per gli sfortunati che non hanno mai sentito il nome di questo autore, dico solo che si tratta di uno splendido attore di teatro. Se, poi, volete vederlo recitare, dare una occhiata all’ottimo Exile, alle puntate del Doctor Who in cui compare nei panni del Master, a Mad Dogs e a praticamente tutto ciò che ha fatto. Un attore di spessore, quindi, perfettamente in grado di lasciar trasparire tutti i dubbi, i tormenti, le indecisioni di una persona che è convinta di venire da un altro tempo.
Il Sam Tyler USA, invece, è impersonato da Jason O’Mara. Diciamo che costui ha certamente il giusto phisique du role per la nuova versione di Life On Mars. Laddove Tyler inglese era un detective mingherlino, quello americano è un marcantonio grande come un armadio, quasi si volesse rimarcare l’idea che gli yankee son più grandi e forti. Il problema di O’Mara, però, non son tanto le dimensioni, quanto le capacità recitative. Vedendolo in questo telefilm (e in quelli successivi) ci si domanda come sia possibile che si sia formato a Dublino e Londra e sia addirittura stato candidato a miglior attore non protagonista all’Irish Theatre Award nel 2002. Cosa ha dunque portato quest’uomo a una tale involuzione recitativa tale da fargli contendere a Nicholas Cage il titolo di “faccia da comodino” ? In totale, in Life On Mars, O’Mara sfoggia 2 espressioni: quella imbronciata da pesce lesso e quella con gli occhi sgranati da pesce lesso. Qualsiasi cosa succeda, chiunque incontri, qualsiasi cosa gli dicano, queste sono le uniche 2 espressioni a sua disposizione… insomma, un bel salto di qualità.
Oltre a Sam Tyler un altro personaggio importantissimo di Life On Mars è Gene Hunt, interpretato nella versione inglese da Philip Glenister che ricrea un perfetto poliziotto spaccone, amante della bottiglia, borioso, disilluso, con più ombre del lecito, ma sostanzialmente buono e giusto. Il mix con Simm è perfetto, così perfetto che, guarda caso, i due torneranno a recitare insieme in seguito.
Il Gene Hunt americano, invece, è interpretato da Harvey Keitel, un attore che, normalmente, sarebbe al di sopra di ogni sospetto, ma che, questa volta, sforna una interpretazione davvero molto al di sotto delle sue potenzialità e delle aspettative, facendoci rimpiangere il suo Cattivo Tenente.
Gli altri personaggi sono sullo stesso piano: resi più sciatti, banali, stupidi, piatti. Annie diventa una biondona degna di Baywatch e con la profondità di una polaroid. Ray non è più il mastino originale, tuttalpiù un chiwawa. Infine Chris è a dir poco irritante.

Capitolo colonna sonora: inutile dilungarsi. UK batte USA 10 a 1.

Bocciato il cast, vediamo che ne è stato delle trame (attenzione, qui cominciano gli spoiler).
Il primo episodio americano è pressoché identico a quello inglese. Il detective Sam Tyler sta dando la caccia a un assassino, viene investito da un’auto e si risveglia nel 1974. Come è possibile? È morto? È in coma? Ha forse viaggiato nel tempo? O, più semplicemente, sta diventando pazzo?
Tutti i suoi dubbi sono incrementati dal fatto che in quella nuova realtà la gente sembra attendere il suo arrivo, come se fosse stato trasferito da un altro quartiere.
A questo punto, però, le due versioni divergono sempre più.
La prima differenza è nell’ambientazione. D’accordo: la versione americana è ambientata a New York, mentre quella inglese a Manchester, ma non è a questo che mi riferivo, quanto all’atmosfera anni ’70. La versione inglese ci presenta degli anni ’70 sporchi, con corruzione dilagante, violenti e razzisti. Le persone di colore, i gay, perfino le donne, son discriminati e oggetto di battute pesanti. I sospetti vengono spesso picchiati per indurli a parlare, etc. Per Sam Tyler, abituato ad avvocati iper-garantisti, uffici immacolati, sospensioni per una virgola fuori posto e a colleghi di qualsiasi colore, sesso, nazionalità e gusti sessuali, è uno shock. Si trova lì come un pesce fuor d’acqua, continuando a protestare per diritti di cui sembra non fregare nulla a nessuno. Poco a poco, però, riuscirà a convincere tutti che i suoi metodi così sbagliati e strampalati non sono.
La versione americana, invece, sembra uno spin-off del musical hair. La gente va in giro vestita in maniera improponibile, ma, soprattutto, gli anni ’70 sembrano la fiera del multiculturalismo, del rispetto per le minoranze e dell’integrazione. Mai una parola fuori posto, mai una battuta. Perfino quella bambolona siliconata che è diventata Annie non riceve neanche un commento sulle sue ghiandole mammarie ipertrofiche, tra l’altro sempre ben in mostra. In questa fiera del politically correct, è il Sam Tyler americano, addirittura, a fare quasi la parte del cattivo, risultando spesso più violento e brutale dei suoi colleghi. Una contraddizione non da poco.

Il peggio, però, è stato fatto nella storia.
La versione inglese è coerente, quella americana no. In quella inglese Sam Tyler finisce negli anni ’70 e ci son molte cose che gli fanno sorgere dubbi su quale sia la realtà. Se sia in coma o se abbia viaggiato nel tempo. Per esempio nel primo episodio si trova a indagare sullo stesso assassino su cui indagava nel presente e lo arresta. Gli omicidi son identici, per forza di cose sembra la stessa persona, ma come mai è rimasto silente per quasi vent’anni? Semplice: proprio perché era stato arrestato (da lui stesso? non si sa). Una volta uscito dall’ospedale psichiatrico riprende a uccidere. Ma i modi spicci di Hunt fanno sì che l’assassino non finisca in ospedale, ma in carcere a vita. Risultato: il presente cambia. Dunque Tyler ha davvero viaggiato nel tempo?
Forse sì, forse no. Perché in realtà il protagonista, ogni tanto, ha dei contatti con il presente. Un presente in cui lui si trova in coma, circondato dai parenti che pregano per lui e sperano che ne esca. Ma forse è questa realtà quella che non esiste, quella solo frutto della sua mente… se non fosse che Tyler sa in anticipo molti eventi che negli anni ’70 non si sono ancora svolti.
Insomma, il plot è complesso e strutturato in maniera tale da non dare certezze al pubblico e gli attori fanno il resto nel tenere lo spettatore avvinto. Il meglio arriva con il finale. Un finale dolce-amaro, per certi versi nichilista e al contempo pieno di speranza. Tyler, infatti, si risveglia dal coma, lasciando dietro di sé gli amici in difficoltà. È tornato a casa, al suo tempo, è questo che conta, il resto cerca di convincersi che fossero solo fantasie. Ma le cose non funzionano più. Non sente quello come il suo tempo, le persone che ha accanto gli appaiono quasi come dei perfetti sconosciuti. Non perché non le conosca, ma perché i tempi stessi spingono le persone a rimanere distanti. È l’alienazione degli anni 2000 quella che Tyler percepisce in tutta la sua forza, dopo l’esperienza negli anni ’70: più sporchi, sbagliati, razzisti, imperfetti… come tanto più veri e umani.
Per questo fa l’unica scelta possibile. Salito in cima a un palazzo si getta di sotto e torna negli anni ’70 per aiutare i suoi amici.
Un finale coraggioso, impeccabile nello sviluppo e da brividi per i messaggi di cui si fa portatore. Più di tutto il resto: degli attori, dei costumi, delle ricostruzioni, delle trame dei singoli episodi, è il finale che rende splendido Life On Mars. È il finale che fa spiccare questo telefilm dalla media e, a rigor di logica, avrebbe dovuto attirare l’interesse, compreso quello degli americani.

E in effetti gli americani arrivano, comprano i diritti (e addirittura propongono a Simm e Glenister di rifare gli stessi personaggi nella serie americana, purché recitino con accento americano… offerta prontamente rifiutata da entrambi) e si mettono a fare la propria versione. Forse sarà scontato, ma dobbiamo dirlo e, per parafrasare un famoso critico cinematografico, il ragionier Ugo Fantozzi: “la versione USA di Life On Mars è una cagata pazzesca!!!”.
Ma cos’è che, oltre a tutto il resto, rende così pessima la versione yankee? Ovviamente il finale, del tutto stravolto nel senso e nello spirito. Un finale che la produzione si è affrettata a cercare di giustificare parlando di esser stata costretta a inventarsi qualcosa per colpa della chiusura anticipata della serie. Scuse che, vedremo, son chiaramente false.
Nel finale americano, infatti, vediamo Sam Tyler “risvegliarsi” in una astronave. Lui, e tutto il resto del cast, fanno parte dell’equipaggio della prima nave spaziale spedita verso Marte. Sono stati tutti messi in animazione sospesa e il computer di bordo, per ingannare l’attesa, ha proiettato nelle loro menti una finta realtà, seguendo i gusti di ciascuno. Una sorta di Matrix al contrario, insomma. Solo che quella di Tyler ha un certo punto ha avuto un cortocircuito e così, invece di un tranquillo tran-tran da detective del ventesimo secolo (come lui stesso aveva scelto prima di imbarcarsi), il corto si è tramutato nell’incidente d’auto che l’ha spedito negli anni ’70. Tra l’altro con un rimescolamento impressionante a livello di ruoli tra personaggi reali dell’equipaggio e personaggi “fittizi” (uno fra tutti: Tyler finisce a letto con la figlia di Hunt, ma scoprirà che nella realtà Hunt è suo padre…).
Chiunque abbia pensato a un simile sistema, capace di creare giganteschi problemi di identità a chiunque vi si sottoponesse, andrebbe licenziato in tronco. Il riferimento alla splendida canzone di David Bowie, quindi, si perde del tutto. Il titolo della serie americana non sarebbe dovuto all’anno in cui uscì la canzone (il 1974), bensì a un vero e reale viaggio verso Marte. Da brillante a banale. Il peggio, però, è stato l’aver cercato di far credere agli spettatori che il finale dovesse essere un altro e che quello era solo un ripiego. Guardando il telefilm, infatti, non si direbbe proprio.
I rimandi al presente della versione inglese: i cambiamenti al corso della storia, i tentativi di risvegliarlo dal coma, etc. nella versione americana sono pressoché mancanti. Al contrario, invece, non mancano interferenze destabilizzanti che sembrano, piuttosto, aver a che fare proprio con il finale che abbiamo visto. Frequenti sono i primi piani di robottini, astronavi, altri giocattoli futuristici e fantascientifici, presenti quasi ovunque nei luoghi in cui si trova anche Tyler. Così come i sogni e le allucinazioni di Tyler di nuovo hanno spesso a che fare proprio con questi robottini. Infine, senza alcuna motivazione plausibile, tutti finiscono subito per soprannominare il protagonista “space-man”.
Un indizio non fa una prova, ma tanti, tantissimi, piccoli indizi sparpagliati lungo tutto l’arco della serie, danno una ben chiara idea di quale fosse l’intento della produzione. D’altra parte è difficile pensare che la Fox avesse il coraggio di proporre un finale come quello inglese, troppo forte, troppo complesso emotivamente e intellettualmente per il pubblico di massa americano (che guarda caso ha mostrato di non gradire neanche una serie intelligente e brillante come Fringe), ma di certo non ci si sarebbe mai potuti aspettare una banalizzazione simile.

In conclusione, dunque, una preghiera:
“Cari americani, ci son tante storie brutte, inutili, scadenti, che son già mediocri di loro, senza andare a dover rovinare anche le belle idee altrui. Per favore, se volete fare una cagata, fatevela in casa vostra. Risparmierete anche, perché così non dovrete stare a pagare i diritti all’estero. A voi rimarranno un po’ di dollari in più in tasca e noi non correremo il rischio di imbatterci in qualche altro obbrobrio come il vostro Life On Mars. Mi sembra uno scambio equo, no?”.